NOMADAS.1 | REVISTA CRITICA DE CIENCIAS SOCIALES Y JURIDICAS | ISSN 1578-6730

La tipologia da Aristotele alle scienze umane moderne
[Alberto Marradi]

ORIGINE E ACCEZIONI DEL TERMINE | LA DOTTRINA CLASSICA E I SUOI PROBLEMI | RIDUZIONE E RICOSTRUZIONE DI TIPOLOGIE
LA FALLACIA ESSENZIALISTA | L'EVOLUZIONISMO, IL SOPRAVIVERE DELLA FALLACIA ESSENZIALISTA, L'EMERGERE DELLA FALLACIA SCIENTISTA
NOTAS | BIBLIOGRAFIA


 

Con questo saggio intendo rivendicare il ruolo portante delle operazioni classificatorie, e in particolare della costruzione di tipologie, nelle scienze umane. Tale ruolo è stato riconosciuto come centrale in tutto lo sviluppo del pensiero occidentale sin dai tempi di Aristotele, ma da un paio di secoli viene ridimensionato molto al di là di quello che sembra opportuno, per ragioni che esaminerò dopo aver ricordato le caratteristiche di classificazioni e tipologie nella dottrina classica.


1. Origine e accezioni del termine.

Il termine ‘tipologia’ deriva dal greco tupoV (impronta, conio, modello) combinato con la radice logoV (discorso, ragione). Il significato originario del termine tupoV sopravvive in italiano in una delle accezioni del termine ‘tipo’, passata nei composti ‘tipografia’, ‘tipografico’. Peraltro anche nel greco classico le accezioni principali del termine tupoV hanno subìto un rapido processo di metaforizzazione (passaggio da referenti tangibili a referenti non tangibili) — osservabile anche incarakthr (carattere), che anch’esso significava originariamente impronta.

Il senso etimologico del termine italiano ‘tipologia’ (come dell’identico termine spagnolo e dei paralleli termini typology in inglese, typologie in francese e tedesco) è quindi qualcosa come "dottrina dei tipi" o "riflessione sui tipi".

Nel corso dei secoli e per la proliferazione e divaricazione delle discipline, da questo senso originario sono state derivate — come naturale — altre accezioni.

In teologia, e in particolare nella patristica, per ‘tipologia’ si intese lo studio di episodi e persone descritte nell’Antico Testamento (tipi) per individuare precorrimenti allegorici di episodi e persone del Nuovo Testamento (anti-tipi). Questo programma di ricerca, che in Origene e in altri padri aveva la funzione di sottolineare la continuità e la comune ispirazione divina dei due testi, e in questo senso fornì spunti all’arte sacra nel Medio Evo, divenne poi un’esercitazione e uno sfoggio di abilità retorica, cadde in discredito e venne abbandonato.

Nel campo della produzione artistica il termine venne a designare non solo uno strumento intellettuale, ma anche una specifica disciplina che persegue l’esigenza di introdurre un qualche ordine — in base a criteri funzionali, oppure formali/stilistici, oppure iconografici, e così via — nella molteplicità delle opere d’arte. Spesso ai tipi individuati venne attribuita una forte valenza normativa, come nella teoria dei generi di Leon Battista Alberti, ripresa da Poussin, Watelet e altri, che dominò in pittura fino alla rivoluzione impressionista.

Blondel, architetto e storico dell’architettura francese, si richiamò esplicitamente al senso originario (impronta) del termine tupoV legandolo alle particolari finalità di ciascun edificio (1771-77). Durand confrontò edifici antichi e moderni entro ciascun tipo di una tipologia funzionale (1807). Nel quadro del revival neoclassico della prima metà dell’800, l’architetto Quatremère de Quincy (1832) precorse gli economisti e Weber formulando il concetto di tipo ideale e la relativa espressione. Traendo legittimazione dalla Poetica di Aristotele, non di rado i tipi individuati venivano ordinati con criteri assiologici, attribuendo il primato alle opere d’arte di soggetto religioso o storico.

Spesso lo studio dei tipi era contrapposto, o quanto meno giustapposto, allo studio delle forme (morfologia), che si limita ai caratteri esteriori mentre la tipologia individuerebbe tratti comuni più fondamentali, strutturali o latenti. A questo principio si ispirano per esempio le radicali innovazioni (rispetto a Linné) introdotte da Cuvier nelle sue tassonomie zoologiche (1800-1805).

Nelle scienze sociali moderne i primi a sottolineare l’importanza del concetto di tipo come strumento intellettuale sono gli economisti Walras e Menger; entrambi contrappongono "tipi reali" e "tipi ideali", questi ultimi orientati a una conoscenza che "trascende l’immediata esperienza" (Menger 1883, 34; cfr. Walras 1874-77, I, 150). Secondo alcuni(1) si troverebbero qui, e non nell’opera di Jellinek (1900) — che pure usa per primo il termine idealtypus — gli antecedenti del dibattuto concetto weberiano di tipo ideale come modello di riferimento e confronto con funzioni euristiche e comparative (Weber 1904; 1903-06).


2. La dottrina classica e i suoi problemi.

Nella dottrina classica, i generi si suddividono in specie considerando un (solo) aspetto dell’intensione del concetto di genere (aspetto che i filosofi scolastici hanno chiamato fundamentum divisionis) e articolandolo. Se il fundamentum è uno solo, queste specie si dicono classi.

I confini fra le classi sono rigidamente delimitati: data una qualsiasi coppia di classi, nessun referente dev’essere attribuibile ad entrambe le classi della coppia (mutua esclusività). La dottrina classica vuole anche che il complesso delle classi istituite con una classificazione sia esaustivo: ogni possibile referente del concetto di genere che si è articolato classificando (il che equivale a dire: ogni possibile stato sulla proprietà che si è adottata come fundamentum divisionis) dev’essere stato assegnato ad una delle classi. Considerate insieme, la mutua esclusività di ogni possibile coppia di classi e l’esaustività del loro complesso garantiscono che ogni referente del concetto di genere sia assegnato ad una ed una sola delle classi che lo specificano.

I requisiti della dottrina classica sono perfettamente ragionevoli, ed è abbastanza agevole rispettarli quando i referenti che si vogliono classificare sono pensati a tavolino. I problemi nascono allorché si vuole applicare la classificazione a referenti tangibili (come minerali, piante, animali) e anche non tangibili, ma indirettamente esperibili, come sentimenti, temperamenti, e così via. Teofrasto, allievo e successore di Aristotele come direttore del museo-biblioteca-orto botanico del Lyceum, fu il primo a rilevare l’esistenza di innumerevoli gruppi intermedi fra le specie riconosciute. Venti secoli dopo gli fece eco Buffon (1749-88), direttore dei reali orti botanici del Lussemburgo a Parigi. Come osservava Jevons, "le forme viventi non ammettono rigorose linee di demarcazione" (1874: 724), e ogni categorizzazione è in qualche misura una forma di violenza.

Di conseguenza, non sempre l’appartenenza di un referente a una delle classi arbitrariamente costituite è determinabile in modo univoco (sì o no); talvolta è una questione di grado — come hanno sostenuto, appoggiandosi a interessanti ricerche empiriche, i cognitivisti (Rosch, 1973; Lakoff, 1987).

Ancora di conseguenza, un referente può essere attribuito (da osservatori diversi, o anche dallo stesso osservatore in momenti diversi, e naturalmente con gradi variabili di plausibilità) a classi diverse della stessa classificazione: la mutua esclusività di ogni coppia di classi è un obiettivo che viene conseguito solo stabilendo delle regole irrealisticamente semplici e rigide — che spesso vengono poi applicate in modo aleatorio e incoerente.

Peraltro, spesso le classificazioni sono operate — anche nelle scienze umane — in modo assai meno rigoroso: alcune classi sono illustrate a fondo, altre meno; i loro confini, e persino il loro numero, sono talvolta lasciati vaghi. Comunque, il mero fatto di giustapporre due o più concetti in una struttura di alternatività distingue un concetto di classe da un concetto qualsiasi, e la classificazione dalla denominazione (Mill, 1843: IV.VII.1). Inoltre, anche se i confini fra le classi non sono rigidi come si ritiene auspicabile, un concetto di classe, per il solo fatto di appartenere ad una classificazione, ha un’intensione — e quindi un’estensione — molto più delimitata del corrispondente concetto considerato in isolamento.

L’osservazione più importante da fare è che, essendo frutto di un arbitrario intervento del soggetto pensante su un qualche settore della realtà, le classificazioni (così come i concetti, ed altre strutture concettuali come tipologie e tassonomie) non sono né vere né false. "Un modo di segmentare non è né vero né falso" osserva Bateson (1972; tr. it. 1976: 137). Creiamo queste strutture per organizzare i nostri referenti, ma ciò non implica (o meglio, non dovrebbe implicare) affatto una pretesa che la realtà sia organizzata proprio in quel modo.

Se è vero che concetti e strutture concettuali non affermano nulla circa i loro referenti, e quindi non sono pensabili come veri o falsi, è vero anche che essi sono componenti necessarie di tutte le affermazioni possibili, e in un certo senso le predispongono; individuano infatti oggetti cognitivi a proposito dei quali si potranno formulare affermazioni pensabili, e talvolta empiricamente controllabili, come vere o false. Questo non comporta affatto la conclusione che ogni classificazione sia equivalente e intercambiabile con ogni altra; il confronto tra classificazioni alternative dovrà però essere condotto in base ad altri criteri: una valutazione (in larga misura rimessa alla conoscenza tacita, non esplicitabile e meno che mai formalizzabile) del grado di corrispondenza fra le soglie divisorie fra le classi e le zone di maggiore discontinuità nell’insieme dei referenti; l’utilità per specifici scopi cognitivi e/o operativi; una valutazione di quanto bene siano bilanciate la sensibilità (che induce a moltiplicare le classi per accrescere la precisione con cui sono rappresentate le caratteristiche dei referenti) e la parsimonia (che invece suggerisce di limitare il numero delle classi per mantenerne un miglior controllo concettuale).

Mentre una classificazione si produce articolando un solo fundamentum divisionis, una tipologia viene prodotta articolando simultaneamente due o più fundamenta, cioè due o più aspetti dell’intensione di un concetto di genere. In tal modo, anziché una serie unidimensionale di classi, si crea un insieme n-dimensionale di tipi (dove n è il numero dei fundamenta). Un tipo è pertanto un concetto la cui estensione è l’intersezione delle estensioni delle n classi che vengono combinate per formarlo. Peraltro in linguistica si tende ad usare il termine ‘tipo’ anche quando il fundamentum è uno solo, e di conseguenza il termine ‘tipologia’ in luogo di ‘classificazione’ (vedi per es. Greenberg, 1957).

Ogni tipo è il prodotto logico di n classi (una per ciascun fundamentum), e quindi gode della proprietà commutativa di tutti i prodotti (Cohen e Nagel, 1934: 123). Ciò significa che l’ordine in cui sono considerati i vari fundamenta è irrilevante: il tipo delle persone di nazionalità italiana e di professione medici coincide con il tipo dei medici che hanno nazionalità italiana.

Nella dottrina classica, i tipi devono essere mutuamente esclusivi e complessivamente esaustivi come le classi. Ma i problemi che ho evidenziato a proposito dell’attività classificatoria (spesso si categorizzano referenti che presentano variazioni continue tra loro; le appartenenze di specifici referenti alle categorie sono spesso questione di grado e si possono ritenere plurime anziché esclusive) si presentano inalterati anche a proposito dell’attività tipologica. E anche i tipi, come le classi, non si possono ritenere né veri né falsi, ma solo utili, plausibili, in varia misura parsimoniosi o sensibili.

A proposito di sensibilità, si può ragionevolmente ritenere che più aumenta il numero dei fundamenta considerati, e di conseguenza il numero delle suddivisioni (vedine il motivo poco più avanti), più aumenta il grado di corrispondenza dei singoli referenti al tipo astrattamente definito. Ma questa ragionevole aspettativa non deve indurci a ritenere che un referente empirico debba, o possa, corrispondere esattamente al tipo astratto cui è attribuito (Tiryakian 1968: 179).

Oltre che per via intensionale (cioè articolando più fundamenta simultaneamente), una tipologia può essere costruita per via estensionale, cioè raggruppando con tecniche come la cluster analysis oggetti o eventi di un insieme in due o più sottoinsiemi in modo da massimizzare la somiglianza fra membri dello stesso sottoinsieme e la diversità fra membri di sottoinsiemi diversi. Dato che le proprietà considerate in questa operazione sono naturalmente più di una, il risultato sarà una tipologia piuttosto che una semplice classificazione.

Anche nel prodotto logico che costituisce una tipologia, come per tutti gli altri prodotti, il numero dei tipi (talvolta indicato come la "potenza" della tipologia) è una funzione moltiplicativa del numero di classi in ciascuno dei fundamenta considerati. Questo fatto ha tre conseguenze negative: 1) il numero dei tipi è alto anche se si combinano solo pochi fundamenta con poche classi ciascuno, e in ogni altro caso è altissimo; 2) è probabile che alcuni dei tipi così costruiti siano una mera possibilità logica, priva di interesse concettuale; 3) è ancora più probabile che alcuni tipi abbiano estensione nulla o ridottissima, cioè abbiano pochi o nessun referente. "Non è detto che tutti i tipi che risultano dalla combinazione dei fundamenta divisionis abbiano lo stesso grado di corrispondenza a situazioni reali: alcuni tipi potranno risultare meglio caratterizzati e più centrali di altri come strumento di analisi" (Crespi, 1993: 101).

Spetta alla ricerca empirica rilevare quali tipi costituiti dalla combinazione delle classi trovino referenti significativi e quali non. Per il sociologo americano Stinchcombe (1968: 47) mostrare che alcune combinazioni astrattamente possibili non hanno riscontro nella realtà è la principale funzione della riflessione tipologica nella scienza. E per il linguista danese Hjelmslev, il chiedersi perché alcune combinazioni sono possibili mentre altre non lo sono è la domanda affrontando la quale ci si avvicina di più a cogliere la natura del fenomeno linguistico (Hjelmslev 1943; tr. it. 1968: 10).

D’altra parte, riflettere sull’astratta combinazione di caratteristiche che costituiscono un tipo può suggerire nuovi concetti, utili per considerare alcuni aspetti della realtà studiata sotto un diverso punto di vista: è quanto fa sistematicamente Parsons in buona parte delle sue opere, e quanto fanno ad esempio anche Lasswell e Kaplan nella loro tipologia delle forme di dominio (1950). Particolarmente versato e creativo in questa attività di concettualizzazione (e conseguente denominazione) si è mostrato anche il sociologo e politologo Riggs (1964; 1984).

Le osservazioni circa la regolare presenza, o assenza, di una certa caratteristica tenderanno ad arricchire l’intensione di un concetto di tipo. In effetti, uno degli esiti auspicabili del riscontro empirico dei tipi creati in astratto è la scoperta, o intuizione, che l’intensione di un tipo è più articolata di quello che sarebbe implicato dal prodotto logico delle intensioni delle classi che lo formano. "Quando uno psicologo descrive il tipo introverso, egli spera che la ricerca troverà sempre nuovi attributi che entrano in quella particolare combinazione" (Lazarsfeld, 1937: 129). Si potranno sviluppare spiegazioni del fenomeno, si predirà la presenza o assenza di altre caratteristiche; in tal modo quel dato concetto di tipo acquisterà un certo grado di autonomia semantica dai concetti di classe dei quali originariamente era il prodotto logico.


3. Riduzione e ricostruzione di tipologie.

Un rimedio abituale alla proliferazione del numero dei tipi è la riduzione di tale numero, e quindi della complessità intellettuale della tipologia. Naturalmente, anziché eliminarli (il che vanificherebbe l’esaustività), si devono aggregare due o più tipi in uno solo, che abbia estensione più vasta e intensione meno articolata (Hempel e Oppenheim, 1936). Il processo di aggregazione deve essere governato da considerazioni di prossimità semantica fra i tipi (alla luce degli scopi per cui è costruita la tipologia), temperate dall’opportunità di bilanciare la loro estensione. Non è opportuno fondere due tipi, quale che sia la loro prossimità semantica, se la loro estensione congiunta soverchia le estensioni degli altri tipi.

Alcuni autori operano una riduzione esplicitamente, giustificando l’operazione nel complesso e i suoi singoli passaggi (ad es. Fromm, in Horkheimer Fromm e Marcuse 1936; Merton, 1949; Huntington, 1968). Altri la operano senza giustificarla, e magari neppure menzionarla (v. ad es. Nie e Verba, 1975, IV; Fromm, 1929; Sorokin, 1947).

E’ normale che nella vita quotidiana si formino concetti di tipo senza preoccuparsi di stabilire preliminarmente i fundamenta divisionis e di considerare tutte le possibili combinazioni. Peraltro, si può dire lo stesso anche per molte delle tipologie pubblicate nelle scienze sociali: tra le più note, le tipologie di sistemi politici di Shils (1958) e di Friedrich (1970); la tipologia dei tipi libidici di Freud (1931); le due tipologie dei gruppi e delle società globali di Gurvitch (1950, VII).

Talvolta studiosi diversi dall’autore si sono industriati a ricostruire inferenzialmente i fundamenta impliciti in una nota tipologia. Questa operazione, che Lazarsfeld ha chiamato "substruzione" (1937) e poi "ricostruzione" (dal 1962 in poi), è stata eseguita dallo stesso Lazarsfeld sulla tipologia delle relazioni di autorità proposta da Fromm e sulla tipologia di norme sociali proposta da Kingsley Davis (Lazarsfeld e Barton, 1951). Altre note ricostruzioni sono state operate da Parsons (1951) sulla tipologia di suicidi proposta da Durkheim (1897), da Smelser (1976) sulla tipologia weberiana delle forme di autorità e da Capecchi (1966) sulla tipologia mertoniana delle forme di orientamento all'azione sociale.

L’importanza della ricostruzione è stata correttamente percepita dagli studiosi sensibili agli aspetti metodologici; qualcuno la ha giudicata addirittura coessenziale alla stessa classificazione: "Lo scopo della classificazione... è ordinare i tipi noti, mostrandone somiglianze e differenze,... identificando il sistema sottostante delle proprietà... e individuando i tipi non ancora studiati che sono generati dallo stesso sistema" (Berger e Zelditch, 1968: 447).


4. La fallacia essenzialista

Non è stato affatto facile per il pensiero occidentale(2) raggiungere la piena comprensione della natura stipulativa di classificazioni e tipologie, cioè del fatto che esse organizzano il nostro pensiero attorno alla realtà, ma non sono in sé pensabili come vere o false. Nella Grecia della tarda classicità (periodo aristotelico e alessandrino) si praticava la classificazione come esercizio intellettuale; ma una volta prodotti e accettati, questi strumenti intellettuali erano concepiti, dalle stesse scuole filosofiche che li avevano elaborati, come un fedele rispecchiamento delle divisioni e delle gerarchie esistenti nella realtà.

Platone pensava che ogni entità avesse una forma ideale, cui corrispondeva un concetto tipologico nella mente. I suoi 5 megista tvn genvn (i più grandi di tutti i generi), così come le 10 categorie dei pitagorici, erano visti come attributi sia dell’essere sia del pensiero.

Per Aristotele, la gerarchia fra generi, specie e sottospecie di animali e piante(3) aveva natura ontologica, e quindi fissa e indipendente dall’attività conoscitiva dell’uomo; l’osservazione empirica dei vari esemplari serviva ad enucleare i caratteri accidentali e variabili, isolando la sostanza di ciascun genere e di ciascuna specie entro il suo genere. L’attività tassonomica, che — attribuendo gli individui alle specie e le specie ai generi — scopriva e definiva l’essenza, cioè le caratteristiche necessarie e immutabili, di specie e generi, produceva la forma ideale di conoscenza, perché collocava ogni pianta e ogni animale al suo posto nell’ordine cosmico, ed esplicitava i criteri con cui quell’ordine è strutturato. Anche le modifiche eventualmente apportate dall’adattamento all’ambiente erano considerate accidentali, non tali da intaccare la natura eterna e immutabile delle specie. "La definizione aristotelica [di specie] non lascia posto ai cambiamenti... Se le specie cambiano, esse non esistono, perché le cose che mutano non possono esser definite e di conseguenza non esistono" (Ghiselin 1969; tr. it. 1981: 87).(4)

Appena una generazione dopo Aristotele, il suo allievo Teofrasto (vedi sopra, § 2) manifestò invece la convinzione che le specie animali e vegetali fossero instabili ed evolvessero rapidamente; qualche secolo dopo il neo-platonico Porfirio di Tiro prendeva chiaramente le distanze dall’essenzialismo(5) della filosofia greca classica: "Intorno ai generi e alle specie non dirò se essi sussistano o siano posti soltanto nell’intelletto; né, nel caso che sussistano, se siano separati dalle cose sensibili o situati nelle stesse cose sensibili ed esprimenti i loro caratteri uniformi" (Isagoge alle Categorie).

Ma questo punto di vista era molto in anticipo sui tempi: per secoli e secoli nelle scholæ dell’Occidente si insegna a definire per genus et differentiam ("per genere prossimo e differenza specifica")(6), e i logici scolastici sviluppano con notevole finezza la dottrina aristotelica della classificazione. Per tutto il Medio Evo si continua a ritenere universalmente che le tassonomie aristoteliche riproducano l’ordine della creazione; all’alba dell’età moderna, nello stesso spirito sono concepite ed accettate le tassonomie di Mattioli, Cesalpino, Bauhin, Aldrovandi, John Ray, che sostituiscono quelle aristoteliche. Lo stesso Linné in pieno Settecento resta un convinto assertore dell’essenzialismo e della fissità delle specie: "Species tot sunt quot diversas formas ab initio produxit Infinitum Ens... Species tot numeramus quot diversae formae in principio creatae sunt" (1770, § 157)(7).

Si può dire che nelle attività classificatorie/tipologiche si manifestava nel modo più evidente la fallacia essenzialista, cioè la convinzione — di origine parmenideo-platonica prima ancora che aristotelica — che il pensiero fosse in grado di attingere le essenze; convinzione che ha generato innumerevoli confusioni fra i piani ontologico e gnoseologico.


5. L’evoluzionismo, il sopravvivere della fallacia essenzialista, l’emergere della fallacia scientista

Per ancora un secolo dopo Linné, botanici e zoologi continuano a credere che le specie vegetali e animali esistano, in numero e con caratteristiche immutate, sin dalla creazione. Fra le voci dissenzienti, Buffon (vedi sopra, § 2), Goethe, che criticava Linné, e soprattutto Lamarck, allievo di Buffon. Per Lamarck, gli organismi si modificano per adattarsi all’ambiente, e trasmettono tali modifiche per via ereditaria. Le specie si sviluppano così l’una dall’altra, dalle più semplici alle più complesse (1809; 1815-22).

Questa prima versione dell’evoluzionismo non convince la maggioranza dei naturalisti. Georges Cuvier mobilita le prime conoscenze sui fossili e argomentazioni di anatomia comparata per sostenere con autorevolezza la tesi della stabilità morfologica delle specie (1800-15). La tesi della fissità delle specie vegetali e animali sarà abbandonata solo sul finire dell’800, sotto i colpi di Darwin, che la condanna già nel titolo della sua opera principale (1859). Solo il successo del darwinismo mise fine alla convinzione che le specie animali e vegetali fossero restate immutate dai giorni della creazione. Una comunità scientifica irretita da un’ontologia statica fu finalmente costretta a prestare attenzione alla dimensione diacronica; la filogenesi sostituì la morfologia come criterio-guida, e le tassonomie furono reinterpretate come genealogie (Ghiselin 1969).

D’altra parte, gli evoluzionisti caddero per la via opposta nello stessa fallacia degli essenzialisti, confondendo il piano gnoseologico e quello ontologico. Trovate colpevoli di un’ontologia errata, classificazioni e tassonomie furono screditate anche come strumenti cognitivi, e gli evoluzionisti le ripudiarono come anticaglie da conservatori. Thomas Henry Huxley, il maggiore degli evoluzionisti inglesi dell’Ottocento, proclamò (1881) che era l’ora di smettere di impantanarsi nella semantica e nelle definizioni (8).
 

5.1. I naturalisti che hanno continuato a dedicarsi a classificazioni e tassonomie hanno finito comunque per darne interpretazioni essenzialiste. La ricerca della "classificazione naturale", che già preoccupava Linné (vedi sopra, nota 7), è divenuto il tema dominante. Come hanno rilevato Sneath e Sokal (1973, 19), "nei primi tempi ciò significava una classificazione che fosse in accordo con la natura, contrapposta ad una artificiale ed arbitraria". Poi i più avvertiti trasferirono il concetto dal piano ontologico a quello epistemologico, reinterpretando ‘naturale’ come "utile per un’ampia gamma di generalizzazioni induttive" (Gilmour 1940, 466) e "dotato di rilievo sistematico" (Huxley 1940, 15). Tuttavia, in pieno Novecento, in un testo classico dell’empirismo logico si poteva ancora leggere che "una classe naturale è basata sul carattere fondamentale delle cose" (Lenzel 1938, 32). Tutto sommato, è difficile dar torto al grande zoologo Ernst Mayr quando rileva che "il concetto di classificazione naturale è così permeato di ideologia essenzialista-creazionista che il suo uso provoca inevitabilmente dei malintesi" (1969, 67).

Il problema non riguarda solo le scienze naturali: Parsons, Sorokin, Durkheim sono stati accusati di reificare le loro tipologie, cioè di attribuire status ontologico ai tipi da loro stessi creati (l’accusa è di McKinney 1966, 17-18); il sofisticato epistemologo argentino Mario Bunge ha sostenuto che "se la classificazione è adeguata... la classe, un prodotto dell’attività intellettuale, avrà uno status oggettivo" (1959; tr. it. 1970, 292-3). "La reificazione delle tipologie è una tentazione e un trabocchetto ricorrente" giudica Tiryakian (1968, 177); ciò in tutte le attività intellettuali, se anche il matematico Whitehead la individuò e la battezzò "fallacia della concretezza fuori luogo".

E’ difficile accettare l’idea che "generi e specie sono la creazione arbitraria della mente del naturalista" (Jevons 1874, 725) e che "altri avrebbero potuto operare il raggruppamento in altri modi" (Kuhn 1974, 507). Il fatto che noi creiamo queste strutture concettuali non conferisce loro "alcuna eccellenza esclusiva; ci saranno senz’altro molte strutture alternative, ciascuna con i suoi vantaggi e svantaggi" (Jevons 1874, 677). "Non ci sarebbe niente di strano a dichiarare che ci sono più tassonomie alternative, ciascuna con i suoi criteri. Ma questo non sembra accettabile da molti... Perché il punto di vista che c’è una sola tassonomia corretta è così forte?" si chiede Lakoff (1987, 121). E Toraldo di Francia osserva: "è piuttosto grottesco" che, dopo aver costruito noi stessi classi e tipi, "cominciamo a domandarci quali sono le loro proprietà necessariamente vere in natura" (1986, 189; corsivo nostro).
 

5.2. Gli evoluzionisti avevano attaccato, a rigore, solo l’interpretazione essenzialista di classificazioni, tipologie e tassonomie; solo indirettamente il loro attacco aveva gettato discredito su quegli strumenti intellettuali in se stessi (e paradossalmente, questo risultato indiretto era stato ottenuto senza molto scalfire l’interpretazione essenzialista che davano di quegli strumenti gli studiosi che continuavano ad usarli). Un attacco diretto al ruolo delle operazioni classificatorie e tipologiche è stato invece sferrato da empiristi logici, comportamentisti e operazionisti, secondo i quali tutte le scienze si sarebbero potute sviluppare solo imitando la scienza-paradigma, la fisica dell’Ottocento. Poiché in fisica — si sosteneva — la classificazione è stata superata dalla misurazione, tutte le scienze che volevano conseguire gli stessi successi raggiunti dalla fisica dovevano abbandonare le attività classificatorie in favore della misurazione.

Talvolta questa tesi è stata suggerita sottilmente: "il concetto di tipo ha svolto un ruolo significativo in varie fasi dello sviluppo della scienza. Molti dei suoi usi hanno ormai soltanto interesse storico; ma certe discipline, specialmente la psicologia e le scienze sociali, hanno continuato fino ad oggi ad impiegare concetti tipologici" (Hempel 1952, 66). Altre volte il feticcio della misurazione, insieme con le sue motivazioni, si è manifestato più scopertamente: "se la misurazione dei fenomeni sociali è possibile, il cammino delle scienze sociali conduce sullo stesso difficile ma non insuperabile terreno sul quale la fisica e le altre scienze hanno progredito fino ai loro cospicui trionfi attuali... Il cammino della scienza ci attrae sia per i risultati che può raggiungere sia per il prestigio accademico e pubblico" (Lundberg 1938, 197 e 200).

Sono state sollevate obiezioni a vari passaggi di questa argomentazione:

1) Ammesso che anche le scienze sociali vogliano raggiungere il prestigio delle scienze fisiche, non si può dare per scontato che debbano, o anche possano, farlo battendo le stesse strade. Tra i molti che lo hanno affermato, epistemologi (Husserl 1954U13; Kaplan 1964; Mokrzycki 1983; Bruschi 1996Scient/14), psicologi (Mackenzie e Mackenzie 1974; Parisi e Castelfranchi 1978Scient/14), antropologi (Evans Pritchard 1963Scient/12; Leach 1968U7), sociologi (Merton 1949; Znaniecki 1950 e 1969 U7v; McKinney 1966; Rex 1971U9v; Collins 1975; Giddens 1976U12; Duncan 1984Scient/10; Crespi 1985), politologi (Bay 1965U3; Heckscher 1963Scient/10), economisti (Hayek 1952) e anche fisici e astronomi (Whewell 1840U13v; Cini 1994Scient/14v).

2) Vari altri strumenti, oltre alla misurazione, e molti altri fattori hanno contribuito ai successi della fisica: lo hanno rilevato fra gli altri Russell (1931Mis23v), Zetterberg (1954), Rosenblith (1961), Kuhn (1962), Kaplan (1964), Wiener (1964Scient/12v), Simon (1978Scient/12), Berka (1983).

3) La misurazione non sostituisce ma integra la classificazione, perché la scelta di un’unità di misura segmenta il continuum di una proprietà in una serie di classi che hanno tutte le caratteristiche delle classi di uno schema di classificazione, e in più rapporti quantitativi fra loro. Lo hanno osservato McGregor (1938Mis15v), Parsons (1938Mis25), Schumpeter (1939Mis15), Bunge (1967Mis8), Duncan (1984). Concorda anche l’autore di uno dei testi classici dell’approccio comportamentista alla ricerca sociale: "ogni livello di misurazione include, come requisito minimo, una procedura di classificazione" (Blalock 1960; tr. it. 1970: 28).

4) I fisici misurano proprietà che concepiscono come continue e per le quali hanno stabilito delle unità di misura. Ma nelle scienze sociali le proprietà del genere sono assai poco numerose (Sorokin 1937-41Misurab/1v; Lazarsfeld e Thielens 1958Mis15; Kaplan 1964; Kanger 1972Mis15; Clark 1977; Wolins 1978Mis15v; Eiser 1980; Berka 1983).
 

Nel periodo in cui le scienze sociali sono state dominate dall’empirismo logico e dal comportamentismo, e quindi hanno sofferto di un complesso di inferiorità particolarmente acuto verso la fisica, termini sospetti di contaminazione per la loro origine filosofica, come ‘classificazione’, ‘tipologia’ e ‘tassonomia’, sono stati banditi. La Encyclopedia of the Social Sciences del 1930 non contemplava neppure una di queste tre voci. La International Encyclopedia of the Social Sciences del 1968 prevedeva solo la voce ‘typology’. Per lo stesso sospetto di contaminazione filosofica, neppure al termine ‘teoria’ quelle due enciclopedie avevano dedicato una voce — per quanto ciò possa apparire inconcepibile nell’attuale temperie epistemologica.

Anche nella presente fase di reazione contro neopositivismo e behaviorismo, i pregiudizi sul ruolo delle attività classificatorie e tipologiche non sono affatto superati. Anche secondo uno dei maggiori esponenti della sociologia anti-positivista, "la ricerca di schemi categoriali eleganti e onni-comprensivi non è certo l’essenza di una scienza esplicativa" (Collins 1975, 114). Si sostiene anche che "lo stesso successo di una classificazione tipologica può... congelare il livello della spiegazione... Le classificazioni tipologiche nelle scienze sociali sono in parte responsabili del ritardo di una più potente spiegazione teoretica" (Tiryakian 1968, 179).

Si può sostenere che la convinzione della superiorità del sapere assertorio (teorie e spiegazioni) sul sapere non assertorio (concetti, classificazioni etc.) ha le sue radici in un residuo tenace di realismo gnoseologico (l’assunto che i nostri concetti ritraggano fedelmente gli oggetti)(9) e di "certismo" epistemologico — neologismo col quale designo la convinzione che si possa stabilire con certezza la verità/falsità delle nostre asserzioni attorno al mondo. Se i nostri concetti (compresi i concetti classificatori e tipologici) ritraggono fedelmente i loro referenti, li possiamo considerare non-problematici, e concentrarci sugli asserti o sistemi di asserti (ipotesi, teorie, modelli, leggi, spiegazioni), che ci diranno come gli oggetti si comportano, gli eventi causano altri eventi, gli "stati del mondo" evolvono, etc.

Il ripudio di una gnoseologia realista — tutt’altro che acquisito malgrado le critiche all’essenzialismo — comporta la consapevolezza del fatto che i concetti sono strumenti del nostro rapporto cognitivo con la realtà, e come tutti gli strumenti non sono né veri né falsi, ma sono più o meno appropriati. Il miglioramento del patrimonio concettuale (quindi dei nostri schemi classificatori, tipologici e tassonomici) è pertanto un’opera cruciale di affinamento degli strumenti. L’angosciosa questione se classificazioni e tipologie debbano essere considerate conoscenza o preliminari alla conoscenza (Gil 1981, 1024) può essere risolta da ciascuno senza drammi, a seconda di come egli giudicherebbe la familiarità col lessico di una lingua: è essa conoscenza, o solo preliminare alla conoscenza delle cose che possono esser dette in quella lingua?

Alla luce di queste considerazioni, sostenere che l’attività classificatoria ha bloccato lo sviluppo di una scienza esplicativa potrebbe suonare come sostenere che Pierino non sa ancora dire nulla in inglese perché ha perso tutto il tempo a imparare i termini di quella lingua. D’altra parte, sostenere che la misurazione è più congeniale alla scienza della classificazione potrebbe suonare come sostenere che una certa lingua, essendo "aggettivale", dovrebbe essere parlata sostituendo sempre i nomi con gli aggettivi, o mascherando i nomi da aggettivi (come ogni genere di tecnica di rilevazione nelle scienze umane viene spacciata per misurazione semplicemente chiamandola tale).

E’ congeniale alla scienza affrontare ciascun problema con lo strumento adeguato, non usare lo stesso strumento per qualunque problema. Non ci sono strumenti scientifici o non scientifici di per sé, ed ogni gerarchia di strumenti in termini di dignità scientifica, indipendentemente dai problemi e dagli scopi, è priva di senso.

Questi, in sintesi, i motivi per cui mi è sembrato opportuno (long overdue, direbbero gli inglesi) levare una protesta contro l’immagine indebitamente riduttiva del ruolo delle tipologie — frutto di una riflessione epistemologica che si può giudicare superficiale e attardata ai canoni di un positivismo ottocentesco.



NOTAS

1 Ad esempio Pfister (1928), Tenbruck (1959). Per un legame con Jellinek più forte della mera adozione del termine si pronunciano la moglie e biografa Marianne (Weber 1926) e Troeltsch (1922). Sull’argomento si veda anche Roth (1971).
2 Non solo occidentale: ad esempio la dottrina indiana delle categorie, contenuta nel Vaisesika sutra (I° secolo d. c.), ha le stesse caratteristiche delle dottrine aristoteliche.
3 Gli oggetti classificati erano quasi sempre animali e piante: per questo motivo da allora in poi le vicende della classificazione come strumento intellettuale si sono intrecciate con quelle delle scienze naturali. Sino a tempi recenti, e in qualche misura tuttora, i termini ‘classificazione’ e ‘tassonomia’ sono stati addirittura considerati sinonimi di ‘botanica’, o di ‘zoologia’.
4 Qui si manifesta la difficoltà, tradizionale nella filosofia greca, di conciliare l’identità con il cambiamento: una difficoltà che ha trovato soluzioni estreme in Parmenide (per il quale l’essere è unico e immobile, e ogni cambiamento è illusorio) e in Eraclito (per il quale solo il cambiamento è reale). Per Platone il cambiamento è confinato al mondo delle apparenze; per Aristotele, il cambiamento (come la variabilità fra esemplari diversi della stessa specie) è accidentale.
5 Per essenzialismo si intende la tesi che il pensiero umano coglie — o può cogliere — l’essenza delle cose: per via meramente speculativa, penetrando al di sotto delle apparenze, secondo Platone; osservando le caratteristiche che si presentano costanti, e trascurando le altre, secondo Aristotele. Per una critica di questa fallacia vedi ad es. Popper (1963).
Si noterà come nel brano citato Porfirio non sottoscriva né la versione platonica né la versione aristotelica dell’essenzialismo. Porfirio di Tiro è l’autore del celebre «albero», che per tutto il Medio Evo venne insegnato nelle scholæ dell’Occidente europeo come il non plus ultra dell’abilità classificatoria.
6 Nella dottrina di Aristotele, la diajora (differenza) è quell’attributo che distingue una data specie dalle altre specie entro lo stesso genere.
7 La seconda di queste frasi fa pensare che Linné sia convinto di essere riuscito ad individuare le specie della creazione. Al contrario, egli riconosce più volte l’artificiosità della sua classificazione, basata spesso su un solo carattere; dichiara di aspirare a un «metodo naturale», basato sul complesso dei caratteri. Ma le conoscenze del suo tempo sono ancora insufficienti.
8 Secondo una corrente di zoologi e botanici contemporanei, i cladisti, quest’uso disinvolto degli strumenti concettuali ha portato certi evoluzionisti a definire alcune specie in modo «parafiletico» (cioè caratterizzandole solo per la comune assenza di un attributo: Hennig 1966) oppure «plesiomorfico» (cioè mediante caratteristiche che invece sono proprie anche di altre specie, o dell’intero genere: Cain 1974, 685).
9 O, per dirla con il Wittgenstein del Tractatus, gli «stati del mondo».



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