Román Reyes (Dir): Diccionario Crítico de Ciencias Sociales

Entrevista / Intervista   
 
Roberto Fideli y Alberto Marradi
Universitá degli Studi di Firenze

>>> ficha técnica

[Nota:  il capitolo 1 è stato redatto da Alberto Marradi;  gli altri capitoli sono stati redatti da Roberto Fideli]
DEFINIZIONI DI INTERVISTA | I DIVERSI TIPI DI INTERVISTA | LA FORMA DELLE DOMANDE E LA LORO SUCCESSIONE
LA SITUAZIONE DI INTERVISTA | L'INFEDELTÀ DELLE RISPOSTE | BIBLIOGRAFIA
 

1.  Definizioni di intervista.

L'intervista è lo strumento di raccolta delle informazioni più diffuso nelle scienze sociali: secondo alcune stime addirittura il 90% delle ricerche sociali si avvale di informazioni raccolte mediante interviste (v. Brenner, 198O, p. 115; analogamente Kahn e Cannell, 1968, p. 149).

L'intervista è diventata anche un importante oggetto di studio: negli anni '60 e '70 sono comparse oltre 1.200 pubblicazioni sul tema (v. Trentini, 1980a, p. xxv); in particolare fra gli studiosi che hanno raccolto l'eredità dell'interazionismo simbolico si è manifestata la consapevolezza che l'intervista costituisce non solo lo strumento-principe delle scienze sociali, ma un oggetto di analisi degno in se stesso di attenzione e di approfondimento critico (si vedano ad esempio Benney e Hughes, 1956;  Cicourel, 1964 e 1974;  Briggs, 1986).
 

1a.  L'intervista nella vita quotidiana e nelle scienze umane.

Il termine 'intervista' deriva dall'inglese interview  che, a sua volta, è un calco del francese entrevue,  participio passato del verbo entrevoir,  intravedere. Come molti altri termini, tra i quali 'classificazione', 'misurazione', 'osservazione' 'scienza', esso designa sia un'attività, un processo, sia il prodotto di quell'attività (gli inglesi parlano in questi casi di process-product equivocation: v. Ryan, 1970). Non necessariamente ad un'intervista-processo corrisponde un'intervista-prodotto; in ambito antropologico, il ricercatore-intervistatore può anche interrogare un informatore senza registrare affatto (se non mentalmente) le sue risposte (v. Powdermaker 1966, pp. 156-7). Peraltro, le definizioni di intervista si focalizzano in genere sulla prima delle due accezioni (v. 1c).

Intesa come attività e nella sua accezione più ampia, l'intervista costituisce "una forma di conversazione nella quale due persone (e di recente più di due) s'impegnano in un'interazione verbale e non verbale nell'intento di raggiungere una meta precedentemente definita" (v. Matarazzo e Wiens, 1972; cit. in Trentini, 1980b, p. 3).  Questa meta si può considerare di natura genericamente cognitiva. Naturalmente, interazioni a fini cognitivi sono presenti anche al di fuori dell'attività scientifica, nella vita quotidiana. Secondo l'antropologo Briggs (v., 1986, p. 1),  nelle società occidentali "la capacità  [stessa]  di svolgere il ruolo di intervistati influenza [le probabilità di] successo nell'istruzione e nella professione".

Pur non trascurando l'influenza che la diffusione dell'intervista nella vita quotidiana e la conseguente socializzazione al ruolo di intervistati (o esaminati) esercitano sulle ricerche sociali, si limiterà questa analisi alle interviste che si svolgono nel quadro di una ricerca. Questa scelta non implica peraltro riserve nei confronti delle interviste eseguite a fini diversi dalla ricerca scientifica.
 

1b.  L'intervista e gli altri strumenti per la raccolta delle informazioni.

Molti degli strumenti di raccolta delle informazioni nelle scienze umane prevedono qualche forma di comunicazione verbale tra ricercatore/i e soggetto/i studiato/i. Ricomprendere tutte queste forme di interazione sotto la comune etichetta di 'intervista' appare inopportuno.

Ad esempio, in un test psicologico si "richiede... al soggetto una performance, cioè una dimostrazione delle sue capacità, intellettive o pratiche" (v. Pitrone, 1984, p. 14). L'intervista intende invece rilevare delle situazioni personali, dei comportamenti, delle opinioni/ atteggiamenti  —  che di per sé non possono "essere considerate giuste o sbagliate" (v. Verba, 1969, 68). L'intervista non dovrebbe essere percepita come un esame dagli stessi soggetti intervistati, anche se ciò può talvolta accadere (v. 5c), magari per colpa dei ricercatori.

Inoltre nell'intervista non si ha in alcun modo l'intenzione  —  come invece in un colloquio psichiatrico  —  di modificare opinioni, atteggiamenti o  —  tanto meno   —  comportamenti dei soggetti studiati. Infatti, sebbene "un'intervista ben condotta... [accresca] la consapevolezza dell'individuo su alcuni aspetti di se stesso e del suo rapporto con l'ambiente [...] L'intervista non nasce di solito da una richiesta del soggetto [...]  e [...] il suo fine va al di là del rapporto col soggetto medesimo, in quanto parte dall'esigenza di raccogliere informazioni la cui utilità si collega ai fini della ricerca" (v. Borsatti e Cesa-Bianchi, 1980, p. 18). Pertanto, se sono i soggetti stessi ad aver "voluto e chiesto il contatto, si parla più propriamente di colloquio", anziché di intervista  (v. Trentini, 1980b, p. 7).  Il colloquio (clinico) è quindi promosso dal soggetto e le sue finalità non sono solamente cognitive, ma anche terapeutiche (v. Ancona e Gemelli, 1959).

L'intervista in quanto strumento delle scienze umane presenta dunque le seguenti caratteristiche:
1) ha come scopo la rilevazione di situazioni, comportamenti, atteggiamenti, opinioni - non la valutazione di capacità;
2) intende rilevare, non alterare, gli stati degli intervistati sulle proprietà che interessano;
3) si svolge nel quadro di una ricerca  —  ciò la distingue da quelle interviste che hanno carattere cognitivo, ma si svolgono in altri contesti (ad esempio, l'intervista giornalistica).

Poiché le caratteristiche 1), 2), 3)  sono attribuibili anche al sondaggio in generale (v. Pitrone, 1984, p. 17),  ne consegue una sovrapposizione semantica tra il concetto di intervista e quello di sondaggio?

Anzitutto, dato che un sondaggio può svolgersi anche mediante questionario auto-amministrato, tra il concetto di sondaggio e quello di sondaggio tramite intervista esiste un rapporto di genere a specie. Inoltre, il sondaggio tramite intervista è un macro-strumento costituito da un insieme complesso di attività; l'intervista costituisce solo un tipo di attività entro questo complesso. Il rapporto è quindi di parte a intero.

Una relazione analoga intercorre anche tra l'intervista e altri due macro-strumenti propri delle scienze umane: la raccolta di storie di vita e l'osservazione partecipante. Il primo è caratterizzato dal ricorso sia ad interviste sia a documenti personali come i diari (v. Ferrarotti, 1981);  il secondo implica di solito l'osservazione dei comportamenti, verbali e non verbali, in (eventuale) combinazione con interviste ai soggetti studiati (v. Foote Whyte 1979, p. 65). Secondo Schwartz e Jacobs (v., 1979; tr. it. 1987, p. 77; v. anche Deutscher, 1973), "l'osservazione partecipante, quando sia combinata con qualche tipo di intervista, offre un modo potenzialmente efficace per indagare la corrispondenza tra parole e comportamenti". Il ricorso, in ambito antropologico, all'uso combinato delle due tecniche (mera osservazione e intervista) deriva proprio dalla consapevolezza che, qualora il ricercatore non si sia precedentemente immerso nell'universo simbolico cui appartengono i soggetti studiati, "l'intervista [...] costituisca di per sé una fonte inaffidabile di informazioni" (v. Benney e Hughes, 1956, p. 319).
 

1c. Il concetto di intervista: un approfondimento delle proprietà che ne definiscono l'intensione.

Dopo aver delimitato l'intensione del concetto di intervista rispetto a quella di altri concetti, approfondiamo l'analisi dell'intensione in sé.

L'intervista viene definita una "forma di interazione" (v. Benney e Hughes, 1956, p. 194) o di "contatto sociale" (v. Gostkowski, 1974, p. 12) che in quanto tale implica una "transazione di [...] informazioni" (v. Kahn e Cannell, 1968, p. 149). Si può anche definire l'intervista un "evento comunicativo" (speech event:  v. Briggs, 1986, p. 2), precisando che la comunicazione non è circoscritta ai soli aspetti verbali (in quanto include, oltre ai comportamenti linguistici e para-linguistici, anche quelli cinesici e prossemici degli individui coinvolti).
Nelle interviste telefoniche la comunicazione è esclusivamente verbale. Pertanto Lopez (v., 1965), anche sulla base di considerazionni etimologiche, propone di escludere dall'estensione del concetto di intervista le comunicazioni telefoniche. La tesi solleva qualche riserva: è vero che i termini nascono in un certo contesto storico-culturale che tende a plasmarli; ma è inevitabile che nel corso del tempo l'intensione/estensione dei concetti che ad essi si fanno corrispondere subiscano mutamenti. Tuttavia, assai raramente tali cambiamenti sono così bruschi e drastici da far avvertire la necessità di adottare un nuovo termine. Il termine 'intervista' è nato in un'epoca in cui il telefono era assai poco diffuso; quando le interviste telefoniche sono divenute fattibili, quello stesso termine è rimasto nell'uso, per designare un concetto dotato di una maggiore estensione. Considerando le caratteristiche dell'intervista enucleate nel confronto con altri strumenti di raccolta (v. 1b), esistono, oltre al semplice riferimento all'uso, anche ragioni di carattere epistemologico per cui si può ritenere accettabile l'espressione 'intervista telefonica' (ad esempio, la finalità cognitiva e non terapeutica e le altre elencate sub 1b).

Il carattere volontario può invece essere considerato un requisito fondamentale: l'intervistatore non dovrebbe in alcun modo costringere l'intervistato ad accettare l'intervista, né proporre compensi per la prestazione effettuata (v. Kahn e Cannell 1968, p. 149; v. Hyman, 1973, p. 337).

Se accettare o meno l'intervista dipende dalla volontà dell'intervistato, porla in essere dipende dall'organizzazione che promuove la ricerca: la fonte esogena (rispetto all'intervistato) dell'iniziativa costituisce uno dei tratti distintivi dell'intervista rispetto al colloquio ( v. 1b).

Secondo la norma metodologica correntemente impartita nei manuali di ispirazione comportamentista l'interazione dovrebbe svolgersi tra due soli attori. Infatti, la presenza di altri individui comporterebbe inevitabilmente una qualche loro influenza sull'intervistato e, in una certa misura, anche sull'intervistatore.

Peraltro, numerosi psicologi ritengono inopportuna una restrizione numerica, come si evince dalla classificazione delle interviste in base alla struttura relazionale proposta da Trentini (v., 1980b, pp. 33-5). Egli individua sette forme diverse di intervista: "a due" (che comprende anche il colloquio), "a tandem" (con due intervistatori), "a panel" (davanti ad una commissione di esaminatori), "in pubblico" (in cui la presenza di altri individui è accidentale), "collettive" (in cui più individui sono intervistati simultaneamente dallo stesso intervistatore), "in gruppo" (nelle quali si intende rilevare opinioni individuali, ma in un contesto che sia tale da condizionare tali opinioni, ad esempio intervistando un individuo alla presenza dei propri familiari), "di gruppo"  (nelle quali l'attenzione è interamente rivolta al gruppo, come negli psicodrammi).  A parte i difetti logici di questa classificazione, ci pare opportuno sottolineare lo stiramento cui è soggetto il termine 'intervista', che viene esteso a fattispecie che è opportuno tener distinte, quali il test o il colloquio.

La diffusione di forme non tradizionali di intervista deriva probabilmente dalla preferenza accordata ai tests e alle tecniche di carattere quasi-sperimentale rispetto ai sondaggi nelle ricerche di molti psicologi. In particolare, queste ricerche sono orientate alla ricostruzione, nel contesto artificiale dell'esperimento, delle dinamiche di gruppo piuttosto che alla registrazione di opinioni di carattere individuale. Un maggiore rigore terminologico dovrebbe indurre, crediamo, a definire alcune pratiche (in particolare le interviste "di gruppo" e "in gruppo")  come quasi-esperimenti, piuttosto che come interviste  —  con esse hanno infatti in comune solo la circostanza che esiste qualche forma di comunicazione verbale tra ricercatore e soggetti studiati.

Al contrario, alcune forme di interazione nelle quali viene ugualmente violato il canone, di matrice comportamentista, che prescrive la presenza di due soli attori (l'intervista "in pubblico" e quella "a tandem") possono essere legittimamente designate come interviste  —  tenendo peraltro presente, nella valutazione dei risultati, il fatto che la presenza di terzi influenza sempre in qualche modo (difficile da valutare) le risposte di un intervistato.

Nell'intervista collettiva, la registrazione protocollare dell'intervista (l'intervista come prodotto) potrebbe essere indipendente per ciascun intervistato; ma, dato che le diverse interazioni intervistatore-intervistato tendono a sovrapporsi, ne può conseguire un'alterazione (di entità e direzione anch'esse difficili da valutare) delle risposte dei vari intervistati.

Il requisito dell'indipendenza dei protocolli non è mai enunciato esplicitamente in letteratura, probabilmente anche a causa della scarsa attenzione dedicata alla distinzione tra le due possibili accezioni di intervista (attività e prodotto: v. 1a). Esso non viene soddisfatto in molti studi di comunità di ispirazione antropologica, nei quali, specie nelle fasi iniziali della ricerca, si ricorre contemporaneamente a una pluralità di informatori per rilevare proprietà individuali e di gruppo (Edgerton e Langness, 1974, p. 33).

L'estraneità tra i due attori, intervistatore e intervistato, è un requisito che alcuni autori considerano esplicitamente (v. Gostkowski, 1974, p.12; v. Briggs, 1986, p. 198).  Ciò implicherebbe una differenza sostanziale con l'uso dell'intervista in una ricerca basata sull'osservazione (soprattutto se partecipante) nella quale, in genere, l'osservatore e i soggetti osservati sono inseriti in una trama di rapporti interpersonali, che precede il momento dell'intervista. Proprio la difficoltà insita nel comunicare ad un intervistatore estraneo il "contesto etnografico" dell'intervista (espressione introdotta da Cicourel, v., 1974, pp. 150-4) induce Schwartz e Jacobs a concludere che "l'osservatore partecipante, grazie alla sua familiarità con i soggetti della ricerca e alla capacità di interagire con loro, può riuscire a controllare la situazione di intervista meglio di un estraneo" (v., 1979; tr. it. 1987, p. 73). L'estraneità tra intervistatore e intervistato può quindi perfino apparire un limite intrinseco dei sondaggi di massa piuttosto che un'opportuna prescrizione metodologica.



2.  I diversi tipi di intervista.

In genere si classificano le interviste sulla base di due criteri: 1) la presenza o meno di un contatto diretto (visivo) tra intervistatore e intervistato, 2) il "grado di libertà" concesso ai due attori (v. Statera, 1982, p. 141). In base al primo criterio si distinguono le intervista personali (faccia a faccia) da quelle telefoniche; in base al secondo si individuano tre forme principali di intervista (non strutturata, parzialmente strutturata, strutturata), collocabili lungo un continuum  che procede da un minimo a un massimo di strutturazione sia degli stimoli (domande), sia delle reazioni (risposte).  Combinando queste due classificazioni si può ottenere una tipologia con sei tipi, due dei quali (l'intervista telefonica non strutturata o parzialmente strutturata) non sono al momento ancora diffusi (v. 2d);  nelle sezioni successive ci occuperemo pertanto degli altri quattro tipi.

2a. Lintervista non strutturata.

L'intervista "in profondità", "non direttiva" (v. Rogers, 1942) o "non strutturata" (v. Statera, 1982, pp. 141-2) si propone di "ricostruire la personalità e/o il quadro cognitivo e valoriale dell'intervistato" (v. Pitrone, 1984, p. 31). L'esplorazione del "mondo vitale" (v. Schutz, 1932) dell'intervistato implica che l'intervistatore affronti gli argomenti "man mano che emergono nella conversazione" (v. Becker e Geer, 1957, p. 323) o   —  più frequentemente  —  si avvalga di una lista di temi, ma con la facoltà di modificarne sia la natura sia la successione, "seguendo il filo del discorso dell'intervistato, e consentendogli divagazioni" (v. Livolsi, 1964, p. 64).  La situazione non direttiva implica infatti che l'intervistatore si ponga in una condizione di ascolto  (v. Rogers, 1942),  "limitandosi per lo più a fornire una serie di 'segnali' diretti a rassicurare l'interlocutore sul suo livello di attenzione e di comprensione"  (v. Borsatti e Cesa-Bianchi, 1980, p. 16),  al fine di "aiutarlo   —  senza porre domande  —  a sviluppare liberamente il tema" (v. Alberoni, 1967, p. 67)  o ad "introdurre temi che non erano stati anticipati dall'intervistatore" (v. Foote Whyte, 1984, p. 97).  Infatti "il contenuto [...] e il corso [di interviste di questo tipo] riflettono gli interessi, i bisogni e gli stati d'animo degli intervistati  [piuttosto che] venir determinati dagli interessi a priori dell'intervistatore" e/o del ricercatore (v. Wittenborn 1968, p. 168). Pertanto l'intervistato si trova nella condizione di reagire a se stesso più che a degli stimoli (v. Pinto, 1964, p. 650). La spontaneità delle risposte riduce le distorsioni derivanti dalla strutturazione delle reazioni (v. 3b).

L'intervistatore guida il discorso solo in modo indiretto, cercando di "riesprimere ciò che dice [l'intervistato]  e soprattutto  [di] riesprimerlo con le sue stesse percezioni" (v. Alberoni, 1967, p. 67).  A tal fine egli utilizza la tecnica "ad eco",  che consiste nel ripetere una frase (non necessariamente l'ultima) pronunciata dall'interlocutore che sembra significativa e adatta a riaprire la comunicazione (v. Rogers, 1942), ponendo eventualmente domande di approfondimento (probes) su questo o quel punto (v. Foote Whyte, 1984, pp. 99-100).

L'intervista non direttiva richiede all'intervistatore il possesso di doti umane che derivano più "da una preesistente competenza [che da] uno specifico addestramento alle interviste" (v. Schwartz e Jacobs, 1979; tr. it. 1987, p. 71).  Dello stesso avviso è anche Statera (v. 1982, p. 142), che sottolinea come "la rilevanza o l'irrilevanza dei risultati dell'intervista dipenda dalla capacità, dall'intuito, dalla personalità dell'intervistatore". Anche a causa di questo, essa implica generalmente un contatto diretto del ricercatore-intervistatore con i soggetti studiati, che contrasta con la tendenza alla parcellizzazione dei compiti e alla reificazione dei ruoli che caratterizza i sondaggi di massa (v. Boccuzzi, 1985).

Il carattere non strutturato di questa forma di intervista è evidentemente incompatibile con l'esigenza di standardizzare le situazioni di intervista per garantire una comparabilità formale dei dati, frequentemente espressa nella manualistica corrente, di prevalente ispirazione comportamentista (v. 2c). La conseguenza di tale orientamento metodologico è stata per molti anni la sostanziale marginalità, nel quadro della ricerca mediante sondaggio, delle interviste non direttive e, più in generale, l'estrema parsimonia nel ricorso a forme di stimolo che prevedessero reazioni poco strutturate (v. 3b).
 

2b.  L'intervista parzialmente strutturata.

Nell'intervista semi-strutturata "l'intervistatore dispone di una lista di temi fissati in precedenza sui quali deve raccogliere tutte le informazioni richieste [con] la facoltà di adattare ai singoli intervistati sia le domande, sia l'ordine in cui le pone" (v. Pitrone, 1984, p. 33).  Un'intervista si può considerare parzialmente strutturata anche quando, sebbene la raccolta delle informazioni sia stata operata tramite domande aperte (v. 3b), il ricercatore prevede di organizzare le informazioni stesse in una matrice dei dati. In tal caso l'intervistatore sottopone la domanda in forma aperta, lasciando poi al codificatore il compito di ricondurre la risposta fornita dall'intervistato a una certa categoria in un elenco prestabilito.

Varie forme di intervista semi-strutturata sono state utilizzate in vari settori con etichette diverse: "focalizzata" (v. Merton e Kendall, 1946), "guidata" (v. Pizzorno, 1960), "finalizzata" (v. Borsatti e Cesa-Bianchi, 1980).
 

2c. L'intervista strutturata.

Lo strumento che caratterizza l'intervista strutturata è il questionario, composto dai seguenti elementi:
a) una breve presentazione della ricerca (v. 4a);
b) una serie di domande da sottoporre all'intervistato;
c) un insieme di istruzioni che "hanno la funzione di suggerire il comportamento da adottare di fronte a [...] risposte o reazioni dell'intervistato", che mostrano chiaramente che egli non ha capito la domanda o il compito che gli viene richiesto (v. Pitrone, 1984, p. 55).
d) una serie di domande all'intervistatore stesso (che possono riguardare la durata dell'intervista, le reazioni dell'intervistato alla situazione di intervista, le caratteristiche dell'ambiente in cui l'intervista ha luogo).

Come rileva Statera (v. 1982, p. 143) "nel momento in cui si introduce il questionario, quale che ne sia il grado di strutturazione, si è già sul versante della standardizzazione". Infatti il carattere strutturato o semi-strutturato delle reazioni, ovvero delle alternative di risposta (v. 3a), consente di presentare le domande (con le corrispondenti alternative di risposta) nella stessa forma e nello stesso ordine a tutti gli intervistati. Non a caso le espressioni 'intervista strutturata' e 'intervista standardizzata' sono usate in modo intercambiabile (v. Pitrone, 1984, p. 33), anche se la prima è meglio riferita alla forma del questionario e la seconda più genericamente alla situazione.

La presunta comparabilità delle risposte, in conseguenza dell'invarianza degli stimoli e della standardizzazione della situazione d'intervista, costituisce il principale vantaggio attribuito in letteratura a questa forma di intervista (si vedano Goode e Hatt, 1962, p. 241; Selltiz e Jahoda, 1963, p. 239; Frey, 1970, p. 243). Prendendo a modello le tecniche sperimentali delle scienze naturali, si sostiene che "il questionario può essere considerato non soltanto come uno strumento per ottenere risposte, ma come un metodo per sottoporre gli interrogati a stimoli sperimentali, sebbene di natura verbale" (Hyman et al., 1954, p. 210). Le risposte si ritengono comparabili in quanto tutti gli intervistati sono stati sottoposti agli stessi stimoli, e tutti gli altri aspetti della situazione d'intervista (ordine in cui le domande sono sottoposte, modo in cui l'intervistatore le sottopone, etc.) sono anch'essi uniformi (v. anche 4b). L'intervistatore può intervenire solo in caso di mancata comprensione del testo della domanda da parte dell'intervistato, ma "anche in questo caso, però, prima di cambiare la domanda, l'intervistatore deve ripeterla nella forma prescritta, perché spesso l'incomprensione è dovuta a semplice disattenzione" (v. Cannell e Kahn, 1953, p. 359).

Anche taluni autori di impostazione comportamentista si rendono peraltro conto del fatto che l'uniformità degli stimoli non implica l'uniformità dei significati: una stessa domanda può essere interpretata diversamente da soggetti diversi (v. Goode e Hatt, 1962, p. 264; v. Selltiz e Jahoda, 1963, p. 256). La norma metodologica che prescrive l'invarianza degli stimoli (e delle reazioni corrispondenti) viene così "liberalizzata" da alcuni: ciò che conta non è l'identità formale degli stimoli, ma la loro equivalenza sostanziale.

Si suggeriscono pertanto riformulazioni ad hoc  della stessa domanda, che potrebbero non essere interamente previste dalla definizione operativa, ma che appaiono comunque preferibili ad "una ripetizione meccanica di una domanda incomprenibile, che avrebbe solo l'effetto di irritare l'intervistato" (v. Gostkowski, 1974, p. 19).

Il problema dell'equivalenza dei significati emerge in modo esplicito (v. Verba, 1972, p. 321) nell'ambito della ricerca comparata trans-culturale, dove "la necessità di tradurre da una lingua all'altra è soltanto l'aspetto più evidente della necessità di tradurre da una cultura all'altra [anche se peraltro] quasi tutti i comparatisti [...] accettano l'idea che una traduzione letterale degli stimoli basti a trasferirli immutati da una cultura all'altra" (v. Marradi, 1984, 101; v. anche Gadamer, 1960; tr. it., p. 442).

Nelle ricerche di ambito nazionale  —  nelle quali in genere non si pone il problema della traduzione linguistica  —  si tende spesso ad ignorare completamente l'esistenza di diverse subculture e "province di significato" (v. Schutz, 1962). La coincidenza tra gli schemi di riferimento degli intervistati e quelli del ricercatore viene data per scontata. Lo rilevano criticamente, in ambito sociologico, Cicourel (v., 1964, p. 52; 1974, p. 22);  in ambito antropologico, Becker e Geer (v., 1957, p. 323). Si tratta probabilmente di uno dei tanti casi in cui la conoscenza di senso comune è assunta acriticamente come "risorsa tacita", piuttosto che esser considerata oggetto di ricerca  —  una pratica denunciata dagli etnometodologi (v. Zimmerman e Pollner, 1970).

In realtà le forme di concettualizzazione possono differire in modo assai marcato all'interno di una stessa cultura. Fra gli altri, il politologo Converse (v., 1964)  ha richiamato in particolare l'attenzione su quella sorta di "illusione ottica"  che induce i ricercatori a "pretendere che gli astratti schemi di riferimento che essi danno per scontati nei loro discorsi sofisticati si rispecchino nei sistemi di credenze" dell'opinione pubblica (v. McKennell, 1974, p. 225). Ad esempio, studi condotti negli Stati Uniti hanno permesso di rilevare che soltanto una porzione assai ridotta della popolazione possiede un'ideologia nell'accezione che i sociologi sono soliti attribuire al termine (v. Hyman, 1973, p. 349).  La mancanza di chiari atteggiamenti politici che i ricercatori rilevano in alcuni strati della popolazione potrebbe però anche derivare dalla "incapacità dell'intervistato di strutturare il suo mondo politico nello stesso modo del ricercatore" (v. Verba, 1972, p. 347).

La difficoltà intrinseca del "doppio processo ermeneutico" (v. Giddens, 1976; tr. it. 1979, p. 208; v. anche Palumbo, 1992) caratterizza probabilmente ogni forma di ricerca nelle scienze umane; tuttavia, nell'intervista strutturata non soltanto gli schemi di riferimento dell'intervistato sono (erroneamente) assunti come equivalenti a quelli del ricercatore, ma, molto spesso, questi ultimi sono imposti dalla rigidità della strutturazione stessa (v. Pawson, 1982, p. 289; v. anche 3a).  L'analogia che la Knorr-Cetina (1981, p. 35) mette in luce tra intervista tramite questionario strutturato e procedure di interrogazione adottate dagli inquisitori illustra polemicamente il fatto che "l'egemonia comunicativa" di cui è dotato il ricercatore lo spinge ad imporre le proprie categorie conoscitive sui soggetti studiati, tanto che, paradossalmente, i ricercatori rischiano di apprendere "più sui [propri] preconcetti e norme comunicative che non sui problemi della vita quotidiana degli intervistati" (v. Briggs, 1986, p. 174).

Malgrado questi limiti, si è finito  —  soprattutto nelle ricerche sociologiche e politologiche  —  per identificare la ricerca empirica con l'intervista strutturata. Infatti, l'adesione alle tesi operazioniste (vedine un'illustrazione critica in Marradi, 1984, pp. 31-2) ha indotto numerosi ricercatori a considerare la definizione operativa dei concetti, che nelle scienze sociali è strettamente connessa alla costruzione del questionario (v. Mokrzycki, 1983, p. 94),  un requisito fondamentale e distintivo dell'attività scientifica.

Per concludere, se non si intende rinunciare all'uso dell'intervista strutturata (ed ai vantaggi derivanti dall'organizzazione dei dati in matrice), è almeno consigliabile ricorrere ad uno "studio pilota", una ricerca preliminare basata su interviste in profondità (v. McKennell, 1974; v. anche Pitrone, 1984, pp. 43-5).
 

2d. L'intervista telefonica.

A differenza dell'intervista personale, che è uno strumento utilizzabile nel quadro di ricerche basate sull'osservazione o tendenti a ricostruire storie di vita (v. 1b), l'intervista telefonica appare concepibile solo nell'ambito di un sondaggio.

Sebbene un fautore del sondaggio telefonico consideri quest'ultimo, insieme all'interazione video diretta, lo strumento più adatto "per fare ricerca sulla società post-industriale [...] socialmente disintegrata [...] in cui il contatto faccia-a-faccia è stato delegittimato" a favore del contatto anonimo ed impersonale (v. Goyder, 1985, p. 248), la mancanza di un'interazione faccia-a-faccia limita la "competenza comunicativa" (v. Habermas, 1967) dell'intervistatore e dell'intervistato.  Quest'ultimo non può prendere visione diretta del questionario, come accade nel sondaggio tramite questionario auto-amministrato, e, talvolta, nel sondaggio tramite intervista personale (in particolare nel caso di domande che prevedano numerose categorie di risposta, spesso presentate in batteria, cioè in forma uguale per molte domande successive). L'intervista telefonica non consente il ricorso a tecniche che comportano strumenti da sottoporre visivamente all'intervistato (varie forme di gadgets,  scale auto-ancoranti,  line productions; v. Marradi, 1993, pp. 91-8). L'intervistatore dispone di meno informazioni per valutare se l'intervistato ha capito davvero la domanda; di conseguenza tenderà a ridurre gli interventi opportuni per chiarire il testo.  Non è possibile integrare il resoconto dell'intervista con informazioni relative all'ambiente fisico in cui essa ha luogo e al comportamento non verbale dell'intervistato (v. Frey, 1983; 2° ed., p. 123). Inoltre, la presenza dell'intervistatore facilita la concessione dell'intervista: non a caso i sondaggi telefonici sono caratterizzati da un elevatissimo tasso di rifiuti (v. Collins e Sykes, 1985, p. 5).

Peraltro alcuni autori sostengono che proprio l'assenza fisica dell'intervistatore e la conseguente natura anonima della comunicazione telefonica può garantire, rispetto all'intervista faccia-a-faccia, risposte più sincere e tassi inferiori di rifiuti o risposte evasive a domande delicate (v., ad esempio, McQueen, 1989).  Queste tesi sono però in contrasto con le risultanze di numerose ricerche, che suggeriscono se mai l'esistenza di una relazione di segno opposto (v. Groves e Kahn, 1979); sembra infatti che l'intervista telefonica impedisca agli intervistati di rilassarsi e di rispondere in modo sincero anche a domande imbarazzanti (v. Ball, 1968).

Anche gli studi su questa forma di sondaggio (v. Groves e Kahn, 1979) dedicano scarsa attenzione alle caratteristiche della situazione in un'intervista telefonica. Sembra che finora i ricercatori abbiano considerato "il telefono come nient'altro che uno strumento tecnologico che è stato adattato alle loro esigenze di raccolta dei dati [senza] comprendere il significato sociale del telefono e il modo in cui esso condiziona alcuni [...] patterns  di risposta" (v. Frey, 1983; 2° ed., p. 12).

In quanto medium  freddo, il telefono "esige una partecipazione totale [...] un'attenzione esclusiva" (v. McLuhan, 1964; tr. it., p. 277), che risulta in stridente contrasto con la mancanza di intimità che caratterizza un colloquio telefonico tra due estranei.  E' inoltre probabile che la presenza di distrazioni nell'ambiente domestico, come ad esempio un televisore acceso (v. Frey 1983; 2° ed., p. 125).

Inoltre, siccome l'intervista telefonica non si può protarre oltre i 20-25 minuti senza irritare l'intervistato e provocare rifiuti di proseguire (v. Lavrakas, 1987, p. 12), l'intervistatore tenderà a porre le domande in modo frettoloso e l'intervistato, cui è lasciato poco tempo per riflettere, a rispondere in modo affrettato.
Tutto ciò rende questa forma di intervista del tutto inopportuna come strumento nel caso di ricerche interessate ai valori e alla personalità dei soggetti studiati.

Il ricorso al mezzo telefonico permette un elevato grado di controllo sugli intervistatori. Nel Computer Assisted Telephone Interviewing  il compito degli intervistatori, controllato da supervisori che possono in qualunque momento intervenire nella comunicazione telefonica, è sostanzialmente limitato alla lettura delle domande ed alla registrazione delle risposte in forma leggibile dal computer (v. Fabbris, 1991, p. 8). I manuali sul sondaggio telefonico sono quasi esclusivamente orientati ad illustrare, oltre alle procedure di campionamento, le forme di controllo sugli intervistatori (v. ad esempio Lavrakas, 1987), mentre la raccolta delle informazioni è trattata in modo superficiale e acritico. Non per caso il campo di maggiore applicazione del sondaggio telefonico è la ricerca di marketing, in cui esso si è inizialmente sviluppato ed in cui la natura dei temi trattati rende più giustificato il suo impiego.


3.   La forma delle domande e la loro successione.

Le domande di un questionario possono essere classificate in base a diversi criteri, fra i quali, ad esempio, la natura dei temi trattati (v. Pitrone, 1984, pp. 47-52). La classificazione più significativa sul piano metodologico è quella relativa alla forma delle domande stesse, sulla cui base si distinguono le domande in chiuse, semi-chiuse (o semi-aperte) e aperte. Come osserva Galtung (v. 1967, p. 119), a rigore non sono tanto le domande quanto le risposte ad essere pre-organizzate in modo "chiuso" oppure lasciate libere (aperte). A rigore si dovrebbe quindi parlare di risposte chiuse/aperte; ma è difficile sovvertire un uso consolidato.

Le sezioni che seguono saranno dedicate a un confronto tra domande chiuse e domande aperte, ricorrente in letteratura; scarsa è stata invece l'attenzione dedicata alla forma intermedia, semi-chiusa (o semi-aperta), nella quale l'intervistato può anche dare risposte non previste dal "piano di chiusura" (v. 3a) o commentare a latere l'alternativa scelta. Concluderemo il capitolo esaminando le direttive che vengono fornite circa l'ordine in cui devono essere poste le domande di varia natura nel corso dell'intervista.
 

3a.  La domanda chiusa.

Una domanda si dice chiusa se l'intervistato deve scegliere fra un insieme di alternative pre-codificate (che costituisce il "piano di chiusura"). Si è già (v. 2c) criticata la tesi secondo cui la strutturazione implichi la comparabilità delle risposte; tuttavia anche un valente metodologo come Galtung (v. 1967, p. 120) considera la comparabilità delle risposte un elemento a favore delle domande chiuse. Un altro vantaggio delle domande chiuse frequentemente menzionato in letteratura è il risparmio di tempo e di energie intellettuali sia dell'intervistatore, sia dell'intervistato (v., ad esempio, Kahn e Cannell, 1968, p. 155). Il compito dell'intervistatore è infatti agevolato dalla facilità di somministrazione e di codifica (v. Selltiz e Jahoda, 1963, p. 257). Inoltre, poiché le domande chiuse sono concepite per aiutare l'intervistato a concentrarsi sugli aspetti rilevanti per il ricercatore (v. Schuman e Presser, 1977, p. 154), lo sforzo cognitivo che si rende necessario per fornire una risposta è minimo: "l'intervistato deve semplicemente individuare una particolare categoria" fra quelle che gli vengono sottoposte (v. Bradburn, 1984, p. 9).

Alcuni autori consigliano il ricorso alle domande chiuse solo in alcuni casi. Selltiz e Jahoda (v. 1963, p. 262) le considerano efficaci quando "le possibili alternative di risposta sono note, limitate e chiaramente delimitate [e] appropriate per assicurare informazione fattuale". Infine, il loro uso potrebbe essere talvolta consigliabile anche nel caso di domande delicate, ad esempio sul reddito; infatti "l'intervistato può essere più disposto ad indicare la classe (fra quelle che gli vengono presentate) in cui cade il suo reddito, piuttosto che dichiararne l'ammontare esatto" (v. Pitrone, 1984, p. 60).

Il principale difetto delle domande chiuse (v. anche 2c) è la "sovra-determinazione dello schema di riferimento" (v. Morton-Williams e Sykes, 1984b, p. 19; v. anche Cicourel, 1964, p. 105): l'intervistato può solo scegliere una categoria fra quelle previste dal piano di chiusura, senza avere in alcun modo la possibilità di chiarire ed articolare la propria posizione (v. Selltiz e Jahoda, 1963, 260). Ciò incoraggia la passività dell'intervistato e fornisce spesso una scappatoia per nascondere ignoranza o disinteresse per un certo argomento (v. anche 5c); infatti "le categorie prestabilite finiscono per suggerire una risposta anche a chi non ha niente da dire sull'argomento" (v. Pitrone, 1984, p. 61; v. anche Selltiz e Jahoda, 1963, p. 260). Di conseguenza i soggetti che rispondono a una domanda chiusa risultano invariabilmente avere un livello medio di informazione più elevato rispetto ai soggetti che rispondono a una domanda aperta sullo sesso tema (v. Noelle-Neumann, 1970, p. 193).

Questo problema era già stato evidenziato da Kendall e Lazarsfeld (v., 1950, p. 170), i quali proponevano come soluzione di cercare innanzitutto di classificare gli intervistati secondo il loro livello di competenza. Si può anche fare ricorso ad un'altra procedura, che ha inoltre il merito di tendere a minimizzare l'imposizione degli schemi concettuali del ricercatore sugli intervistati: "l'intervistatore non legge la serie di risposte prestabilite, [ma] lascia all'intervistato il compito di rispondere con parole sue [riconducendo] la risposta fornita [...] a quella che [...] giudica la più vicina tra le categorie previste" (v. Pitrone, 1984, p. 61). Peraltro questa procedura di riconduzione è ovviamente assai sensibile alle distorsioni introdotte dagli intervistatori (v. 5b).

Un altro grave inconveniente delle domande chiuse deriva dal fatto che il numero delle alternative di risposta presentate è talvolta elevato (v. Pinto, 1964, p. 712). A quanto sostengono alcuni psicologi di laboratorio, il numero massimo di alternative che l'individuo medio può valutare contemporaneamente è sette (v. Miller, 1956). Come ha suggerito il metodologo polacco Kistelski (v., 1978), nel caso di una lista troppo lunga è opportuno dividere le voci in due elenchi; invitando l'intervistato a scegliere una o più alternative gradite in ciascun elenco; dopodiché si riuniranno le alternative indicate come preferite (la cosa sarà agevole se si usano dei gadgets) invitando l'intervistato a scegliere solo fra quelle.

La divisione dell'insieme delle voci in due elenchi non può comunque evitare le distorsioni derivanti dalla posizione di una voce sulla lista: le alternative che figurano per prime o per ultime sulla lista hanno una maggiore probabilità di essere scelte. Nei confronti di tali inconvenienti "non si vedono rimedi migliori di quello di trascrivere gli items su cartellini il cui ordine di presentazione possa variare da un'intervista all'altra" (v. Delli Zotti, 1992, p. 139).

Le domande chiuse risultano irritanti per "le persone particolarmente interessate e informate [che si sentono in grado] di dare un apporto originale alla ricerca" (v. Pitrone, 1984, p. 62). Non necessariamente tali persone appartengono agli strati sociali più elevati; l'uso di strumenti strutturati può risultare inadeguato anche nel caso che oggetto di studio siano individui marginali sul piano socio-economico (v. Galtung, 1967, p. 154).
Numerosi studi convergono nel rilevare come la distribuzione delle risposte sia fortemente sensibile alla forma della domanda (v. Schuman e Presser, 1979); ciò non ha tuttavia intaccato il primato di cui godono le domande chiuse. Infatti il modello epistemologico prevalente nelle scienze sociali, secondo il quale la formulazione delle ipotesi deve precedere la raccolta delle informazioni (vedine una critica in Marradi, 1984, pp. 90-8), non lascia spazio ai contributi spontanei e agli spunti originali che potrebbero fornire al ricercatore i soggetti di studio stessi. Inoltre al primato delle domande chiuse hanno contribuito, in misura rilevante, alcuni vincoli di natura economica legati all'organizzazione della ricerca (v. anche 2a).
 

3b.  La domanda aperta.

Gli svantaggi attribuiti in letteratura alle domande aperte sono in parte emersi nella precedente sezione; si sostiene che richiedano un maggiore sforzo cognitivo all'intervistato (v. Bradburn, 1984, p. 9) e che siano più sensibili alle distorsioni introdotte dall'intervistatore nel registrare la risposta (v. 5b). Non essendo rigidamente determinata la dimensione di interesse del ricercatore, le risposte fornite ad una domanda aperta sono inoltre più difficili da codificare (v. Scott, 1968, p. 210; v. anche Ballatori, 1988, p. 90).
Il grande pregio delle domande aperte è di garantire la spontaneità delle risposte (v., tra gli altri, Kahn e Cannell, 1968, pp. 154-5). A differenza della domanda chiusa, la domanda aperta non solo evita la "sovra-determinazione dello schema di riferimento" (v. Schuman e Presser, 1977, p. 164), ma limita anche i problemi derivanti dalla sotto-determinazione degli stimoli (v. 5a): ascoltando attentamente la risposta l'intervistatore può valutare se l'intervistato ha effettivamente compreso il senso della domanda (v. Selltiz e Jahoda, 1963, p. 260).

Peraltro, la forma aperta viene in genere consigliata solo nei casi in cui le alternative di risposta siano troppo numerose o non ancora note  (v. Ballatori, 1988, p. 90) o le domande vertano su argomenti complessi e/o delicati (v. Krak, 1988).

Il ricorso a reazioni non strutturate è spesso limitato alla fase iniziale di pre-test, allorché si elaborano i piani di chiusura, e, più raramente, ai controlli della fedeltà delle risposte fornite alle domande chiuse (v. Lutynski, 1988).
 

3c.  La successione delle domande

Le domande dovrebbero essere presentate secondo un ordine che appaia anzitutto ragionevole all'intervistato (v. Scheuch, 1967). Per evitare di disorientarlo è consigliabile presentare ordinatamente i temi, evitando salti bruschi fra un tema e l'altro. A tale scopo si inseriscono frasi che informano del cambiamento di tema (transition statements), invitando l'intervistato a volgere la propria attenzione a un nuovo argomento (v. Frey, 1983; 2° ed., p. 146). Ogni tema dovrebbe essere affrontato facendo seguire a domande di carattere generale domande sempre più specifiche, che richiedono maggiore concentrazione (tecnica "a imbuto"; v. Bruschi 1990, p. 377).

Il raggruppamento delle domande secondo il criterio della vicinanza tematica e l'ordinamento delle stesse secondo la tecnica a imbuto contrasta palesemente con l'altra direttiva metodologica correntemente impartita nei manuali sul sondaggio, secondo la quale occorre evitare gli "effetti di contaminazione" (v., ad esempio, Moser e Kalton, 1977, p. 346). La contaminazione, in parte provocata dalla comprensibile propensione degli intervistati a mostrarsi congruenti, si produce quando la risposta ad una domanda condiziona la risposta alla (o alle) domande successive. Come rimedio si suggerisce la dispersione all'interno del questionario delle domande su uno stesso tema  (v. Ballatori, 1988, p. 83). Tuttavia nemmeno frapponendo una serie di domande "neutrali" fra due domande che si presume possano provocare effetti di contaminazione si evitano gli "effetti contestuali" (v. Schuman et al., 1983, p. 113): l'ordine in cui le domande si susseguono nel questionario influenza comunque, in modo più o meno marcato, le modalità di risposta (v. Noelle-Neumann, 1970, pp. 198-9).

L'ordine delle domande dovrebbe inoltre essere posto in relazione con il livello di "attenzione e [di] interesse dell'intervistato, [che] cresce dopo l'inizio dell'intervista, raggiunge un massimo sul quale si stabilizza per un certo tempo, e poi decresce rapidamente per la stanchezza" (v. Pitrone, 1984, p. 70). Di conseguenza si raccomanda (v. Scheuch 1967) di porre all'inizio dell'intervista le domande più facili, nella fase intermedia quelle più complesse, lasciando per ultime quelle di carattere "strutturale" (ad esempio, sesso, età, professione dell'intervistato). Si suggerisce anche di porre comunque all'inizio quelle domande che servono a stabilire se la persona contattata può essere un caso di quella particolare ricerca, cioè se è una casalinga in una ricerca che riguarda le casalinghe, un disoccupato se si stanno studiando i disoccupati, e così via (v. Pitrone, 1984, p. 71).

Le domande dovrebbero infine essere ordinate cercando di minimizzare le possibilità che l'intervistato tronchi l'intervista. Pertanto è consigliabile porre solo alla fine le domande più delicate (ad esempio sul reddito o sulla posizione politica), che potrebbero irritare l'intervistato. C'è anche un'altra ragione per evitare di porre nella fase iniziale dell'intervista domande imbarazzanti: l'intervistato mantiene in questa fase una certa diffidenza verso l'intervistatore, che tende ad attenuarsi nel corso dell'interazione (v. Kahn e Cannell, 1968, p. 158).


4.   La situazione di intervista.
4a.  La concessione dell'intervista.

Poiché l'intervista è una forma di interazione la cui fonte è esogena  (v. 1b), la prima difficoltà che incontra l'intervistatore è ottenere la collaborazione dei soggetti. Il suo compito può essere facilitato dalla lettura di una breve introduzione al questionario che, come rileva Pitrone  (v., 1984, p. 53), assolve almeno tre funzioni: identificare il committente della ricerca; chiarire lo scopo della ricerca stessa; sottolineare la rilevanza scientifica del contributo che ogni singolo intervistato può fornire. Nell'introdurre il questionario, l'intervistatore dovrebbe inoltre rassicurare l'intervistato che le informazioni raccolte resteranno anonime  (v. Galtung, 1967, 144).

Poiché l'efficacia di tale presentazione non è affatto garantita, l'intervistatore "deve soprattutto stabilire fiducia in se stesso come persona" (v. Rose, 1950, 214). Peraltro, alcuni degli espedienti abitualmente utilizzati per ottenere la collaborazione dell'intervistato incidono negativamente sulla fedeltà delle risposte; ad esempio, cercare di convincere la persona contattata con l'assicurazione che l'intervista richiederà poco tempo, come consiglia Lavrakas, autore di un manuale sul sondaggio telefonico (v., 1987, p. 113), incentiva un atteggiamento superficiale da parte dell'intervistato, "che tenderà a rispondere meccanicamente"  (v. Pitrone, 1984, p. 104).

Il modo di presentarsi dell'intervistatore, le sue caratteristiche fisiche (v. 4b), la presenza stessa di un contatto faccia-a-faccia (v. 2d), esercitano una certa influenza sulla decisione di accettare l'intervista, che spetta comunque ai soggetti contattati. In letteratura i motivi per l'accettazione dell'intervista vengono in genere semplicemente elencati; più raramente ne vengono proposte classificazioni  (v. Kahn e Cannell, 1968, p. 153, che distinguono fra motivazioni "intrinseche" ed "estrinseche"; v. anche la più articolata classificazione proposta dalla Boccuzzi, 1985). Nei termini di Weber  (v., 1922), l'accettazione dell'intervista si può definire wertrational (razionale rispetto al valore) quando avviene per le seguenti ragioni:

a) la gratificazione derivante dal dare un contributo ad una ricerca scientifica  (v. Gostkowski, 1974, p. 15), alimentata dal prestigio dell'istituto che conduce la ricerca  (v. Cannell e Kahn, 1953, p. 335);
b) la curiosità verso un'esperienza nuova o inconsueta per la maggior parte dei soggetti  (v. Galtung, 1971, p. 93);
c) il desiderio di non perdere comunque un'occasione di interazione  (v. Young e Morton-Williams, 1986, p. 6); in particolare "le persone socialmente marginali si mostrano [...] disponibili proprio perché apprezzano il fatto che qualcuno si ricordi di loro e sia interessato a quanto hanno da dire"  (v. Pitrone, 1984, p. 121; v. anche Galtung, 1967, p. 148).

Quest'ultima ragione è presente anche nelle comunicazioni telefoniche  (v. Ball, 1968); tuttavia l'assenza di un contatto faccia-a-faccia con l'interlocutore facilita il rifiuto dell'intervista.

L'accettazione è invece di natura zweckrational  (razionale rispetto allo scopo) se l'intervistato accetta nella convinzione che l'interazione possa provocare dei cambiamenti nella propria condizione; in tal caso "l'intervista o lo stesso intervistatore possono essere considerati dei sistemi per la divulgazione di problemi"  (v. Cannell e Kahn, 1953, p. 335). In genere sono però ragioni non strumentali che inducono ad accettare una forma di interazione di natura intrinsecamente cognitiva  (v. 1b). Di conseguenza, il fatto di "mettere l'intervistato nel ruolo di chi aiuta piuttosto che nel ruolo di chi ha bisogno di aiuto" non solo è più produttivo, come ritiene Galtung  (v., 1967, p. 148), ma anche conforme alla natura stessa dell'intervista.

In taluni casi l'adesione alle norme e consuetudini sociali da parte della persona contattata può agevolare la concessione dell'intervista. I sociologi polacchi Przybylowska e Kistelski  (v. 1982, p.7) hanno rilevato come, anche in un contesto non favorevole alla libera espressione delle opinioni, in cui il sondaggio ha inevitabilmente scarsa diffusione, gli intervistandi "agiscano in conformità ad una norma tradizionale, profondamente interiorizzata, che richiede loro di essere ospitali con chiunque, inclusi gli stranieri".

Nell'intervista telefonica la collaborazione dei soggetti potrebbe dipendere da una forma di cortesia secondo cui si attribuisce al solo autore della chiamata il diritto di interrompere la comunicazione  (v. Ball, 1968). In un contesto quale quello statunitense, caratterizzato dalla crescente istituzionalizzazione dei sondaggi  (v. Goyder, 1986, p. 4), non è azzardato ipotizzare che l'intervista, al pari di altre attività della vita quotidiana, venga percepita come cosa del tutto normale  (v. Boccuzzi, 1985).

I comportamentisti mettono il rifiuto di concedere l'intervista prevalentemente in relazione con le caratteristiche socio-demografiche dei soggetti, trascurando la loro capacità di agire autonomamente  (lo rileva criticamente Goyder; v., 1986, p. 4). La persona contattata può sottrarsi all'intervista:
a) perché occupata in altre attività;
b) per diffidenza nei confronti dell'organizzazione che ha promosso la ricerca;
c) per diffidenza nei confronti dell'intervistatore, che può essere considerato un intruso che viola la privacy  (v.

Young e Morton-Williams, 1986, p. 7) o un rappresentante di qualche impresa commerciale — congettura che non risulta infondata: negli Stati Uniti, intorno alla metà degli anni '60, il 60% degli individui intervistati in un sondaggio era stato almeno una volta contattato per una "intervista" che si concludeva con l'offerta di qualche prodotto  (v. Biel, 1969);
d) per il timore di rispondere ai temi trattati nella ricerca, soprattutto se l'intervistato è convinto di avere opinioni non conformiste  (v. Cannell e Kahn, 1953, p. 337);
e) per sfiducia nella capacità dei sondaggi di indirizzare le decisioni dei pubblici poteri  (v. Sharp e Frankel, 1983, p. 43).
Infine, l'adesione a norme tradizionali può talvolta ostacolare il compito degli intervistatori; ad esempio in quei contesti culturali in cui non è concesso alle donne avere contatti con estranei  (v. Rudolph e Rudolph, 1959, pp. 238-9).
 

4b.  La situazione di intervista secondo l'impostazione comporta- mentista: un'analisi critica.

Negli Stati Uniti sono stati condotti numerosi studi sulle caratteristiche ideali di un buon intervistatore; ne emerge che le donne di mezza età e di classe media sono le più adatte a svolgere una mansione che risulta invece scarsamente remunerativa per soggetti appartenenti a fasce più forti della forza-lavoro e poco gratificante per studenti universitari e neo-laureati  (v. Brislin et al., 1973, p. 62). La preferenza per soggetti poco qualificati  (e magari poco critici) è, come vedremo, una diretta conseguenza del modo in cui il ruolo di intervistatore viene concepito nell'ottica comportamentista. Accanto alle caratteristiche socio-demografiche viene segnalata anche l'importanza delle doti umane che l'intervistatore dovrebbe possedere: una buona cultura generale, serietà professionale e "attitudine a parlare con estranei che potrebbero non condividere esattamente il suo punto di vista"  (v. Schatzman e Strauss, 1955, pp. 336-7).

La convinzione che quest'ultima dote non si possa insegnare  (v. Brusati, 1983, p. 120), ma soprattutto il timore che, in un'organizzazione della ricerca caratterizzata da una rigida definizione dei ruoli, un intervistatore addestrato possa svicolare più facilmente dalle istruzioni ricevute  (v. Campostrini, 1991, p. 84), hanno contribuito a limitare nella letteratura metodologica la rilevanza attribuita alla formazione e alla familiarità con i temi della ricerca. Pertanto, posizioni come quelle di Statera  (v. 1982, p. 143; v. anche 5b), secondo cui "le distorsioni  (e le inaccuratezze) risultano meno ampie e incontrollabili nel caso in cui gli intervistatori siano anche ricercatori, cioè non lavoratori utilizzati in modo parcellare, ma lavoratori che prendono parte all'intero progetto della ricerca", sono state e restano — purtroppo — del tutto marginali. Al contrario, la preoccupazione di tenere sotto controllo i possibili fattori di distorsione (v. 2c) ha indotto gli autori di impostazione comportamentista ad assimilare l'intervistatore a uno strumento; Bailey  (1978, p. 171) consiglia di standardizzare non solo le domande, ma anche il tono di voce degli intervistatori.
Se il ruolo di intervistatore è definito da una serie di prescrizioni abbastanza rigide, tanto da essere avviato all'istituzionalizzazione, il ruolo di intervistato è invece governato da regole piuttosto elastiche  (v. Benney e Hughes, 1956, p. 193; v. anche 5c).

Non soltanto la definizione dei ruoli è squilibrata, ma l'interazione, specie in un'intervista completamente strutturata, ha carattere asimmetrico. L'intervista infatti è guidata dall'intervistatore, nel senso che solo lui può fare le domande, mentre all'intervistato si chiede solo di dare risposte adeguate  (v. Kahn e Cannell, 1968, p. 149). Così concepita l'intervista appare "governata da un principio di cooperazione applicato unilateralmente"  (v. Sormano, 1988, p. 350).

Nella manualistica corrente, oltre alla natura asimmetrica dell'interazione, la percezione dell'intervistatore come "estraneo" viene considerata un'altra condizione che favorisce la sincerità nelle risposte  (v. Pinto, 1964, p. 664; v. anche 1c). Si ritiene infatti che se l'intervistato dovesse percepire l'intervistatore come simile, questi perderebbe il proprio anonimato, e l'intervistato risponderebbe calandosi in un ruolo sociale  (v. Rose, 1950, p. 213).

Peraltro, anche autori di impostazione comportamentista si rendono conto del fatto che il comportamento dell'intervistatore "evoca [comunque] comportamenti di ruolo già familiari in altri [...] contesti"  (v. Kahn e Cannell, 1968, p. 153). Dato che le risposte dipendono dalla percezione dei ruoli che si stabilisce nel corso dell'interazione  (v. Gilbert, 1980, 228), è illusorio pensare che l'intervistato possa comportarsi come una sorta di banca-dati  (v. Pitrone, 1984, p. 124).

E' anche difficile che l'intervistatore possa spogliarsi dei ruoli che riveste nella vita quotidiana  (v. Cicourel, 1964, p. 91).  La standardizzazione dell'attività degli intervistatori si scontra inoltre con l'impossibilità di anticipare tutte le situazioni che si possono venire a creare nell'interazione e con l'improbabilità dell'ipotesi che, di fronte a situazioni impreviste, tutti gli intervistatori si comportino allo stesso modo  (ibi , pp. 90 e 100). La posizione comportamentista, secondo cui l'intervistatore deve comportarsi come "un automa intelligente"  (v. Lavrakas, 1987, p. 112) o un "agente inerte"  (come rileva criticamente Deutscher; v. 1972, p. 325), risulta quindi inevitabilmente auto-con- traddittoria.

Gli autori che più si distaccano da tale impostazione tendono invece a sottolineare che se si vuole ottenere una collaborazione attiva dei soggetti studiati è necessario mettere da parte la preoccupazione che il comportamento dell'intervistatore possa alterare quello dell'intervistato. L'instaurazione di un rapporto amichevole con l'intervistato è anzi indispensabile al fine di assicurare sincerità delle risposte  (v. Cicourel, 1964, p. 75). Pertanto, anche in un'intervista  (parzialmente) strutturata, può essere opportuno consentire divagazioni  (v. Borsatti e Cesa-Bianchi, 1980, pp. 41-2). Inoltre, permettere all'intervistato di fornire informazioni apparentemente irrilevanti rispetto ai fini cognitivi dell'intervista contribuisce ad "una distribuzione più egualitaria del controllo sull'interazione"  (v. Briggs, 1986, p. 28), che tende così ad approssimarsi ad una "conversazione [...] che ha luogo fra eguali"  (v. Benney e Hughes, 1956, p. 196).

La critica alla pretesa di standardizzare la situazione di intervista e, di conseguenza, all'intervista strutturata, non ha motivazioni esclusivamente etiche. Come si è già avuto modo di osservare  (v. 2c e 3b), il carattere abnorme di un'interazione caratterizzata dalla mancanza di un reale dialogo  (v. Heller, 1987, p. 395) non può non incidere sulla fedeltà delle risposte. Inoltre, il tentativo di ottenere "opinioni private", cercando di rimuovere tutti i condizionamenti contestuali, appare comunque destinato al fallimento se si concorda con Deutscher  (v. 1972, p. 326) che "le opinioni sono sempre pubbliche, nel senso che sono espresse alla presenza di altri". Al pari di ogni altra interazione, "la situazione sociale creata dall'intervista non costituisce semplicemente un ostacolo all'espressione delle opinioni"  (v. Briggs, 1986, p. 22), ma un quadro che, per quanto continuamente ri-negoziato dai partecipanti all'interazione  (v. i socio-linguisti Cook-Gumperz e Gumperz, 1976), condiziona tutte le attribuzioni di senso che vengono operate, tanto dall'intervistatore quanto dall'intervistato. Non prendere in considerazione il contesto in cui l'intervista  (strutturata) ha luogo è probabilmente un modo di celare i pesanti vincoli che la strutturazione impone sulla trasparenza della comunicazione, consentendo, nel contempo, che "l'egemonia comunicativa"  (v. 2c) non venga esplicitata, ma rimanga "una premessa metodologica implicita"  (v. Briggs, 1986, p. 124).



5.  L'infedeltà delle risposte.

Se si vuole operare su dati che rilevino con il minor grado di distorsione gli stati effettivi dei soggetti sulle proprietà oggetto di studio (v. Marradi, 1990), si deve prestare una particolare attenzione ai vincoli e ai condizionamenti presenti nella fase di raccolta delle informazioni. Purtroppo, in letteratura si tende ad utilizzare in modo estensivo il termine 'distorsione' (bias), ignorando il fatto che il contesto spazio-temporale in cui l'intervista ha luogo e la specifica forma di interazione che essa pone in essere sono invece condizioni ineliminabili, che non è corretto escludere dal quadro interpretativo, attribuendo loro il ruolo di distorsioni  (v. 4b).

A parte queste considerazioni, riteniamo opportuno classificare le forme di vera e propria distorsione a seconda che si possano attribuire  (prevalentemente) al ricercatore, all'intervistatore o all'intervistato.
 

5a.  Il ricercatore e l'infedeltà delle risposte.

Numerosi studi condotti negli anni '40 hanno rilevato che la diversa formulazione del testo delle domande e delle categorie usate nel piano di chiusura influenza in modo assai marcato la distribuzione delle risposte  (v. Schuman e Presser, 1977, pp. 151-2 ). Peraltro, negli anni successivi non è stata dedicata sufficiente attenzione a questi problemi, anche a causa dell'assunto  (comodo ma empiricamente falso) secondo il quale le relazioni fra variabili non sono soggette alla stessa instabilità dei marginali (ibidem).

Le distorsioni derivanti dalla formulazione possono essere classificate applicando sia agli stimoli sia alle reazioni la coppia concettuale sotto-determinazione / sovra-determinazione proposta da Marradi, e successivamente ripresa dalla Pitrone  (v. 1984, pp. 87-8).

Si ha sotto-determinazione dello stimolo se "nel testo della domanda non si danno  (all'intervistato) elementi sufficienti per la comprensione"  (v., 1984, p. 87). La sotto-determinazione può essere di natura sintattico-strutturale oppure di natura semantica. Nella prima categoria rientrano le domande sintatticamente contorte o mal costruite. In particolare le domande double barrelled  (cioè strutturate in modo da mettere in risalto sia gli aspetti positivi sia gli aspetti negativi di un certo oggetto o situazione; v. Moser e Kalton, 1977, p. 323) o che contengono più di un oggetto dovrebbero essere separate in due o più domande diverse  (v. Cannell e Kahn, 1953, p. 347). Criticabile appare anche l'uso di frasi negative in batterie Likert  (v. 5c) in quanto può accadere che "l'intervistato, posto di fronte ad un item di forma negativa [...] col quale concorda, si dichiara in disaccordo, senza rendersi conto del fatto che negando una negazione la si disapprova"  (v. Gasperoni e Giovani, 1992, p. 92, che designano tale fenomeno "falsa doppia negazione").

Molto spesso la sotto-determinazione è originata dall'assunto di coincidenza del patrimonio concettuale del ricercatore con quello degli intervistati  (v. 2c). Attribuendo a questi ultimi un grado di competenza e di informazione superiore a quello che essi in realtà possiedono  (v. Cannell e Kahn, 1953, p. 346), il ricercatore si sente autorizzato ad utilizzare termini che, sebbene "di uso comune tra le persone di cultura universitaria come i ricercatori, sono lontani dal linguaggio della gente comune  (v. Moser e Kalton, 1977, p. 320; v. anche Pinto, 1964, p. 700). Infatti, la competenza simbolica non è una risorsa distribuita in modo uniforme  (v. Palumbo, 1992, p. 38): alcuni strati della popolazione, in particolare i meno istruiti, possiedono una "ridotta capacità di manipolare simboli"  (v. Galtung, 1967, p. 154).

Pertanto, nella redazione del questionario è consigliabile utilizzare termini propri del linguaggio comune piuttosto che del linguaggio specializzato delle scienze sociali  (v. Pinto, 1964, p. 705; v. anche McKennell, 1977, pp. 234-5), anche perché "termini non conformi a quelli impiegati dagli intervistati tenderanno a dare l'impressione che il ricercatore non è familiare all'oggetto di studio"  (v. Levine e Gordon, 1958, p. 572). Oltre che scegliere termini propri del linguaggio comune, il ricercatore dovrebbe evitare termini ambigui e, nel caso di polisemia, scegliere quelli più semplici e più frequentemente usati nel contesto in cui si svolge la ricerca  (v. Pinto, 1964, p. 705; v. anche Moser e Kalton, 1977, pp. 322-3).

Anche un'attenta ricognizione del significato attribuito ai termini nel contesto culturale in cui ha luogo la ricerca  (v. Verba, 1969)  non è in grado di evitare completamente il problema della sotto-determinazione. Infatti, il significato di un termine o di un'espressione dipende dal contesto specifico in cui è impiegato; Garfinkel  (v., 1967) ha battezzato tale proprietà dei segni linguistici "indicalità", riprendendo un termine già usato, ma con un'accezione diversa  (v. Giglioli e Dal Lago, 1983, p. 16) dal linguista Bar-Hillel  (v., 1954).

Inoltre, il contesto in cui ha luogo l'interazione può rendere più o meno agevole l'attribuzione di un senso intersoggettivo; infatti, mentre "nella conversazione ordinaria poniamo e riceviamo domande ambigue [...]. il [cui] significato è chiarito dal contesto [...] un questionario strutturato non sempre può chiarire il senso di una domanda ambigua"  (v. Pitrone, 1984, p. 91). Anzi, il problema dell'ambiguità indicale dei termini  (e della sotto-determinazione) si manifesta anche nel caso di domande apparentemente semplici come "Legge qualche quotidiano?"  (si intende leggere o sfogliare? qualche volta o tutti i giorni?). Lo rileva Hoinville  (1984, p. 5), che di conseguenza consiglia di comunicare nel modo più dettagliato possibile il compito che si richiede all'intervistato. A tal fine sembra preferibile far precedere la domanda da una lunga introduzione, che aumenta lo sforzo cognitivo richiesto all'intervistato, ma che concede a quest'ultimo più tempo per riflettere  (v. Cannell et al.., 1981), piuttosto che presentare domande brevi, come suggerisce invece Pinto  (1964, p. 700).

Anche se il questionario viene redatto con estrema cura, magari sulla base di uno studio-pilota, alcuni intervistati potrebbero trovare alcune domande di difficile comprensione; in tal caso, si rende necessario un intervento dell'intervistatore che, riformulando la domanda, cerchi di chiarirne il senso. Peraltro, non sempre l'incomprensione viene segnalata apertamente, anche perché non necessariamente l'intervistato ne è consapevole. Se la domanda è chiusa, l'intervistato potrebbe scegliere, in modo più o meno casuale, una delle alternative di risposta; in tal caso, l'incomprensione potrebbe emergere solo dagli eventuali commenti a latere che, peraltro, sono abbastanza infrequenti, a meno che l'intervistato non si senta particolarmente toccato dal tema, e raramente considerati con attenzione dall'intervistatore  (v. Cacciola e Marradi, 1988).

Se invece la domanda è aperta, una formulazione oscura o complessa potrebbe indurre l'intervistato ad operare un riadattamento semantico  (v. Belson, 1981). In tal caso un intervistatore attento  (e addestrato) può almeno rilevare tale forma di infedeltà e riformulare la domanda  (v. Borsatti e Cesa-Bianchi, 1980, p. 24).

Mentre uno stimolo sotto-determinato rende più difficile il compito cognitivo richiesto all'intervistato, uno stimolo sovra-determinato riduce lo sforzo cognitivo richiesto all'intervistato, indirizzandolo però verso una certa risposta a preferenza delle alternative. Una domanda pilotante (leading question) "menziona nel testo [...] alcune delle possibilità di risposta"  (v. Pitrone, 1984, p. 95), oppure usa termini che, in un certo contesto culturale o momento storico, hanno assunto una forte carica emotiva positiva o negativa  (v. Cannell e Kahn, 1953, 344). Questi stessi autori ritengono legittimo utilizzare termini emotivamente carichi "solo per identificare i soggetti che hanno un atteggiamento estremo"  (v. Kahn e Cannell, 1968, p. 156).

L'uso di domande sovra-determinate è stato talvolta giustificato con la necessità di costringere i soggetti a rispondere nel caso di domande potenzialmente "obtrusive"  (v. 5c). In una nota ricerca sul comportamento sessuale degli americani, condotta dallo psicologo Kinsey e dai suoi collaboratori  (v., 1949), non si chiedeva ai soggetti se avevano mai praticato qualche attività sessuale, ma, direttamente, quando l'avevano praticata per la prima volta. L'uso di domande che danno per scontato che l'intervistato pratichi attività di questo genere   (presuming questions ; v. Kahn e Cannell, 1953) ha però sollevato molte critiche di natura etica e/o gnoseologica fra gli stessi psicologi  (v., tra gli altri, Eysenck, 1968).

Applicando la coppia concettuale sotto-determinazione / sovra-determinazione si può dire che le reazioni sono sotto-determinate per difetti sul piano semantico  (analoghi a quelli riscontrati analizzando gli stimoli) oppure sul piano sintattico. La sotto-determinazione risulta particolarmente grave nel caso in cui un atteggiamento rappresentabile come un continuum venga rilevato mediante una dicotomia (v. Pinto, 1964, p. 712; v. anche Marradi, 1984, p. 60 e la letteratura ivi citata).

Una certa categoria di risposta può venir definita sovra-determinata se formulata in maniera da aumentare la probabilità che sia scelta (Cannell e Kahn, v., 1953, p. 344, parlano di loaded answer category). A rigore, peraltro, la sovra-determinazione è una proprietà non di una singola alternativa, ma del "piano di chiusura" nel suo complesso (v. 3a).
 

5b.  Le distorsioni introdotte dall'intervistatore.
 
In letteratura si tende a distinguere gli errori casuali da quelli sistematici  (v. Hyman  et. al., 1954). Vengono in genere considerati casuali gli errori di trascrizione e di codifica  (che riguardano esclusivamente l'intervista-prodotto). Effettivamente, questi ultimi sono spesso semplici sviste, determinate dalla fretta o dalla stanchezza  (v. Freeman e Butler, 1976, pp. 81-2); talvolta  (se il piano di chiusura prevede la categoria residuale 'altro') sono invece provocati dalla propensione degli intervistatori ad utilizzare prevalentemente le categorie pre-codificate per registrare le risposte. Gli errori nella trascrizione della risposta ad una domanda aperta  (o semi-chiusa) sono in larga misura determinati dal grado di competenza simbolica dell'intervistatore, in particolare "dalla propensione ad usare pochi o molti termini per registrare una risposta"  (v. Collins, 1970, p. 420). Peraltro, anche se scrupoloso e dotato di un alto grado di competenza simbolica, difficilmente l'intervistatore può riuscire a trascrivere integralmente le risposte.

In un'intervista nella quale le reazioni sono totalmente  (o prevalentemente) non strutturate, è consigliabile l'uso del registratore. Solo di recente questo strumento ha suscitato l'interesse degli scienziati sociali, malgrado comporti numerosi vantaggi sia sul piano gnoseologico  —  per la ricchezza delle informazioni raccolte  (v. Fasick, 1977, pp. 551-2)  —  sia sul piano pratico:  l'intervistatore deve affrontare un impegno meno gravoso, e il ricercatore  (soprattutto nel caso non abbia partecipato direttamente alla raccolta) può riascoltare le interviste  (v. Schwartz e Jacobs, 1979; tr. it. 1987, p. 74).

Fra le fonti  (potenziali) di distorsione sistematica alcuni autori di impostazione comportamentista collocano anzitutto il sesso e la razza dell'intervistatore; in particolare, alcuni studi hanno rilevato che una stessa domanda somministrata da intervistatori di razza differente può dar luogo a differenti distribuzioni delle risposte  (v. Bindman, 1965). Peraltro, è stato dimostrato che tale distorsione si manifesta soprattutto nel caso di domande delicate  (in particolare relative ai pregiudizi razziali) o quando l'intervistato percepisce un'eccessiva distanza sociale rispetto all'intervistatore.

Anche se le caratteristiche esteriori dell'intervistatore possono, in taluni casi, esercitare una certa influenza sulle risposte fornite dall'intervistato, le distorsioni che in letteratura vengono concepite come sistematiche si manifestano in prevalenza nel modo di porre le domande o di interpretare le risposte.

Tali distorsioni possono anzitutto derivare dall'ideologia e dalle opinioni dell'intervistatore stesso  (v. Freeman e Butler, 1976, pp. 85-90). Secondo Hyman  (1954, p. 208), un intervistatore che possiede opinioni conformiste tende a proiettare queste ultime direttamente sui soggetti intervistati; se, al contrario, ritiene di avere opinioni non conformiste usa con maggiore frequenza le categorie 'non so' o 'altro'. Questa tesi, che si accorda perfettamente con il clima cultuale e politico che caratterizzava gli Stati Uniti negli anni '50, non è generalizzabile tout-court a contesti diversi. Peraltro, altri studi hanno limitato il peso delle distorsioni determinate dall'orientamento politico dell'intervistatore al solo caso dell'interpretazione di risposte ambigue  (v. Sudman e Bradburn, 1974, pp. 109-17). Un'altra possibile fonte di distorsione che viene segnalata è la propensione degli intervistatori a manipolare le risposte per renderle coerenti con le ipotesi di partenza della ricerca  (v. Guidicini, 1968, p. 167). Peraltro, la struttura gerarchica dell'organizzazione della ricerca non prevede che l'intervistatore sia informato su tali ipotesi di partenza  (v. 4b); di conseguenza, il peso di tale distorsione sembra trascurabile.

Più ricorrenti sono probabilmente le distorsioni "introdotte dall'intervistatore sulla base delle sue aspettative sull'intervistato"  (v. Pitrone, 1984, p. 116). Tali aspettative sono in parte generate dal ruolo attribuito all'intervistato, in parte dalla propensione ad attribuire a se stessi e agli altri coerenza negli atteggiamenti  (v. Hyman, 1954). Peraltro, i preconcetti sulla personalità e il ruolo dell'intervistato, che si formano fin dall'inizio dell'intervista, tendono a modificarsi sulla base dell'andamento delle risposte (v. Sudman et. al., 1977). Le aspettative generate nella situazione di intervista possono indurre l'intervistatore a porre le domande in modo sbrigativo se, ad esempio, si è convinto che la persona che ha di fronte è disinformata  (v. Pitrone, 1984, p. 116) oppure a non lasciar finire di parlare l'intervistato, facendogli intendere di aver già capito la risposta  (v. Guidicini, 1968, p. 167).

Peraltro, anche un autore di impostazione comportamentista come Hyman si rende conto che l'azione di mediazione esercitata dall'intervistatore non costituisce necessariamente un ostacolo; infatti "le aspettative che l'intervistatore sensibile e attento si forma sull'intervistato lo portano più vicino alla verità degli stessi resoconti dell'intervistato"  (v. 1954, p. 92).

Un'ulteriore fonte di distorsione segnalata in letteratura è costituita dalle aspettative dell'intervistatore circa il funzionamento dello strumento di ricerca; si sostiene, ad esempio, che un intervistatore convinto che alcune domande provochino un alto tasso di rifiuti trasmetta sfiducia all'intervistato (v. Sudman et. al., 1977, p. 172). In realtà, il ricercatore dovrebbe prendere in considerazione tali aspettative non solo e non tanto perché influiscono sul comportamento dell'intervistato, quanto piuttosto perché a) specie nei sondaggi di massa, l'intervistatore può conoscere il contesto in cui si svolge la ricerca meglio dello stesso ricercatore; b) la prestazione dell'intervistatore è in buona misura condizionata dal questionario; uno strumento sciatto, troppo lungo, con domande oscure e complesse aumenta l'incidenza degli errori  (v. Hyman  et. al., 1954). D'altra parte, solo se gli intervistatori partecipano alla redazione del questionario tali aspettative possono interagire con le valutazioni del ricercatore e/o dell'equipe di ricerca; ma tale partecipazione è rarissima nei sondaggi di massa  (v. 4b).

Nel caso l'intervistato mostri chiaramente di essere impaziente di concludere l'intervista, la necessità di ottenere collaborazione può indurre l'intervistatore a saltare qualche domanda o a porla in maniera tale da "ottenere delle risposte immediate, ma poco meditate"  (v. Guidicini, 1968, p. 167; v. anche Marradi, 1984, p. 64, che rileva come i  response sets  siano spesso provocati dagli stessi intervistatori).
 

5c.  L'intervistato e l'infedeltà delle risposte.

Il processo di elaborazione della risposta dovrebbe articolarsi nelle seguenti fasi  (v. Cannell et al., 1981, p. 401; v. Bradburn, 1984, p. 8, che lamenta la scarsa attenzione dedicata ai risultati delle scienze cognitive):
a) comprensione del testo della domanda,
b) reperimento ed organizzazione delle informazioni,
c) valutazione dell'adeguatezza di una certa risposta  (o delle diverse alternative di risposta, se la domanda è chiusa) rispetto a quanto espresso nel testo della domanda.

Tale modello assume che la fedeltà della risposta dipenda interamente dal possesso di informazioni precedenti alla formulazione della domanda, e che l'intervistato scelga in modo trasparente e consapevole la risposta da dare  (o l'alternativa di risposta da indicare). In realtà, l'intervista stessa può contribuire a creare le opinioni. Ciò è criticabile allorché l'opinione viene artificialmente prodotta dalla presentazione di reazioni strutturate  (v. 3a); appare peraltro del tutto legittimo che l'intervista faccia emergere concetti e schemi interpretativi che l'intervistato utilizza, pur non essendo chiamato ad esprimerli in forma simbolica, anche nella vita quotidiana  (v. Palumbo, 1992, p. 31). Tale difficoltà nel tradurre in competenza simbolica una competenza pratica è determinata dal carattere derivato del "pensare come atto occulto, privato [rispetto al] pensare come atto pubblico, palese [ne consegue che? tranne nei momenti di maggiore riflessione, siamo tutti come la vecchietta di Forester: non sappiamo che cosa pensiamo finché non vediamo quel che diciamo" (v. Geertz, 1973; tr. it, p. 126). Se anche il soggetto è consapevole indipendentemente dall'intervista di possedere un'opinione su quel tema, dovrà spesso affrontare la difficoltà insita nel comprimere entro un'unica risposta opinioni complesse e sfaccettate  (v. Moser e Kalton, 1977, 311). Le strategie di riduzione della dissonanza cognitiva  (v. Festinger, 1957) o di self-deception (v. Cardano, 1990) che l'intervistato può porre in atto pongono un'ulteriore problema gnoseologico: anche quando cerca di conformarsi perfettamente alle aspettative del ricercatore  (espresse nel modello precedentemente presentato), un intervistato può avere un controllo solo parziale sui meccanismi di produzione della risposta, in parte per l'influenza degli elementi contestuali  (v. 4b).

Richiamati i limiti del modello nel descrivere il processo di elaborazione della risposta, è il caso di precisare che distorsioni di natura e gravità differente possono aver luogo in ciascuna delle fasi da esso individuate. Anzitutto, l'intervistato può fornire una risposta che non rispecchia il suo stato effettivo sulla proprietà oggetto di studio perché non ha compreso il testo della domanda  (v. 5a) o, più in generale, il compito che gli viene richiesto  (tale distorsione si presenta piuttosto frequentemente nel caso di soggetti poco istruiti; v. Gostkowski, 1974, p. 15).

Il reperimento delle informazioni può non essere agevole, specie quando si chiede agli intervistati di ricordare episodi o attività della loro vita passata. L'accessibilità delle informazioni non dipende solo dall'intervallo di tempo trascorso  (v. Hyman et al., 1954, p. 339), ma anche dalla salienza dell'evento  (v. Bradburn, 1984, p. 9).

L'inaccessibilità delle informazioni, che può essere ricondotta a semplice dimenticanza, a rimozione o all'assenza di uno schema di riferimento comune  (v. Kahn e Cannell, 1968, p. 152), può produrre sia dati mancanti sia, più frequentemente, risposte date a caso. Infatti, piuttosto che ammettere la propria disinformazione su un certo tema, l'intervistato tende a formulare comunque una risposta; ciò è in larga misura provocato dalla situazione stessa di intervista e dalle aspettative di ruolo che essa genera: l'intervistato presume che l'intervistatore si aspetti da lui l'espressione di opinioni su tutti i temi della ricerca  (v. Moser e Kalton, 1977, p. 310). Inoltre, nell'intervista strutturata, oltre alla differenza fra le forme di concettualizzazione del ricercatore e dell'intervistato  (v. 2c), la rigidità stessa della strutturazione contribuisce alla creazione di "dati su opinioni inesistenti"  (v. Converse, 1964; 1970; v. anche 3a).

In letteratura vengono abitualmente attribuite all'intervistato tre altre forme di distorsione: la tendenza alla compiacenza nei confronti dell'intervistatore, la tendenza all'acquiescenza, la scelta dell'alternativa socialmente desiderabile.

Poiché  "il comportamento dell'intervistatore costituisce una delle più importanti gratificazioni offerte dalla situazione di intervista"  (v. Phillips, 1971, p. 196), capita che l'intervistato dia le risposte che ritiene essere più gradite all'intervistatore  (v. Hyman  et al., 1954, p. 221). La tendenza alla compiacenza sarà tanto più accentuata quanto più l'intervistatore farà seguire alle risposte segni di approvazione o di disapprovazione  (v. Collins, 1970, p. 442). Anche in assenza di segnali così vistosi, l'intervistato si forma una certa immagine dell'intervistatore, che può condizionare, in misura più o meno marcata, le risposte che dà  (v. Atkin e Chafee, 1972).

La tendenza all'acquiescenza è emersa studiando il funzionamento della tecnica più utilizzata nei sondaggi di massa, la scala Likert  (v., 1932). Tale tecnica "prevede che un'affermazione, semanticamente collegata al concetto generale che interessa, sia sottoposta agli interrogati" insieme a una serie di alternative di risposta che vanno dal massimo di favore al massimo di sfavore  (v. Marradi, 1984, 62). Le batterie con scale Likert sono assai vulnerabili alla distorsione nota come acquiescent response set (gruppo di risposte uguali ed affermative; v. Cronbach, 1946), tanto che lo stesso Likert cercò un rimedio, almeno sul piano formale, con l'inversione della polarità semantica delle affermazioni.

Per quanto in letteratura la cosa non venga affatto sottolineata, si possono avere response sets solo nel caso di domande organizzate in batteria, come sono appunto le scale Likert.

In letteratura sono state poste in evidenza come cause e/o pre-condizioni di response set:
a) la propensione all'assenso piuttosto che al dissenso, intesa come caratteristica permanente della personalità, che si manifesta anche in interazioni diverse dall'intervista  (v. Oppenheim, 1966, p. 117; tale tesi è criticata da Roper; v., 1965);
b) la lontananza dei temi dal mondo vitale dell'intervistato  (v. McKennell, 1974, p. 226);
c) la propensione sia dell'intervistatore, sia dell'intervistato a ridurre lo sforzo cognitivo che viene loro richiesto; in particolare quest'ultimo "invece di concentrarsi su temi che gli sono estranei e rivestono per lui scarso interesse [...] scopre presto che dichiararsi 'd'accordo' con tutte le affermazioni che vengono sottoposte è il modo più rapido e sicuro per sbrigarsela senza contrariare nessuno" (v. Marradi, 1984, p. 58);
d) alcune caratteristiche socio-culturali degli intervistati, in particolare il grado di istruzione e di competenza simbolica  (v. Galtung, 1967, 141). Alcuni intervistati "non percepiscono i rapporti semantici intercorrenti tra le varie affermazioni, o almeno non li percepiscono allo stesso modo dei ricercatori"  (v. Gasperoni e Giovani, 1992, p. 95). Questi stessi autori, sulla base di ampie risultanza empiriche, ipotizzano che nel caso di "soggetti con la sola licenza elementare. l'unica proprietà ad essere davvero rilevata sia proprio il grado di acquiescenza" ( ibi, p. 75).

Mentre la tendenza all'acquiescenza è connessa alla presentazione delle domande in batteria, "il ricercatore deve [invece] fare [comunque] i conti con la tendenza dei soggetti a dare di sé, nella situazione di intervista così come nei normali rapporti quotidiani, l'immagine migliore possibile, quella 'socialmente accettabile'"  (v. Pitrone, 1984, p. 127). L'intervistato, anche perché posto nella condizione di informatore piuttosto che di soggetto della ricerca  (v. Gostkowski, 1974, p. 20), anziché esprimere autentiche opinioni personali, evita ogni possibile conflitto fra le sue dichiarazioni e le norme del proprio gruppo di riferimento  (v. Stefanowska, 1979, p. 77).

La propensione a fornire una risposta socialmente desiderabile è stata in genere analizzata in relazione a domande che affrontano temi delicati, come i comportamenti sessuali, religiosi o di voto, o che sono concepite come indicatori di status socio-economico (v. Richardson et al., 1965). Tali domande, infatti, non necessariamente producono più alti tassi di rifiuto (v. Johnson e Delamater, 1976, p. 168): l'intervistato può semplicemente negare di aver svolto una certa attività; in questo modo egli soddisfa l'intervistatore fornendo una risposta e nel contempo preserva la propria rispettabilità sociale  (v. Bradburn et al., 1978, p. 226).

Di fronte a tali meccanismi di difesa della personalità sono stati proposti vari rimedi; per evitare che l'intervistato percepisca qualche alternativa come meno desiderabile delle altre  (v. Cannell e Kahn, 1953, p. 347) si può far ricorso alla presentazione in terza persona  (Alcuni pensano che [...] ; altri pensano che [...] ; qual è la sua opinione?). Una soluzione ancora più efficace appare il ricorso a tecniche non direttive, come le storie, le vignette o il completamento di frasi  (v. Moser e Kalton, 1977, p. 327)



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THEORIA  | Proyecto Crítico de Ciencias Sociales - Universidad Complutense de Madrid