NOMADAS.1 | REVISTA CRITICA DE CIENCIAS SOCIALES Y JURIDICAS | ISSN 1578-6730

Kuhn da filosofo della storia a filosofo della conoscenza:
Una maturazione dell'insegnato di Fleck?
[Sandro Landucci e Alberto Marradi] (*)

1. Anche il nostro contributo, come quello di Campelli, dedica ampio spazio al rapporto di Kuhn con Fleck.

Siamo d’accordo con la sostanza delle tesi del magistrale saggio di Campelli, e più precisamente con le tesi seguenti, esplicitate o molto chiaramente implicate:

1) come precursore di Kuhn, Fleck ha un peso assai maggiore di quello che l’opinione colta, gli specialisti, e Kuhn stesso siano stati finora disposti a riconoscere (con alcune importanti eccezioni, fra le quali Toulmin).

2) Inoltre, presentare Fleck come un semplice precursore di Kuhn è riduttivo, perché in realtà egli precorre anche per molti altri aspetti la rivoluzione epistemologica degli ultimi trent’anni.

2’) Innanzitutto, al massimo livello di generalità, precorre la battaglia contro il monismo gnoseologico. Fleck sottolinea infatti come non sia assolutamente il caso di postulare per le nostre pretese cognitive un ancoraggio primo e certo vuoi nei fatti, vuoi nel pensiero, perché questi due ancoraggi sono in continua dialettica fra loro.

2’’) In secondo luogo, e ad esempio, Fleck precorre di circa un quarto di secolo la tesi di Hanson, poi ripresa da una vera e propria processione di epistemologi, secondo la quale observation is theory laden; solo che Fleck dice qualcosa di assai più corretto che theory laden: infatti ciò che influenza l’osservazione non è certo una singola teoria (cioè un asserto che di solito riguarda una relazione tra due o più proprietà del dominio investigato), ma qualcosa di ben più complesso e generale, cioè — appunto — uno stile di pensiero.

2’’’) Come Campelli mostra assai bene, Fleck può ritenersi anche un precursore della reazione a quel demarcazionismo ossessivo che ha caratterizzato il primo positivismo, il neopositivismo, Popper e molti altri pensatori meno allineati, specialmente francesi.

Fleck mostra invece che ogni collettivo di pensiero ruota intorno a un nucleo di ricercatori creativi intorno al quale una serie di cerchi concentrici di altri scienziati mediano le novità (gli slittamenti progressivi del programma di ricerca, per dirla con Lakàtos) e in un certo senso le reificano, rendendole sistematiche e acquisite, e pertanto accettabili al pubblico colto, che costituisce l’ultimo cerchio della serie. Questa — come sottolineato da Campelli — è una rappresentazione assai più penetrante della visione poco o punto differenziata dei ruoli nella comunità scientifica che invece ci dà Kuhn.

3) E’ vero che nel decennio precedente l’opera di Fleck la nascente sociologia della conoscenza aveva prodotto una serie di spunti ai quali certamente egli può avere attinto i suoi concetti di stile di pensiero e collettivo di pensiero. Resta il fatto (e anche questo è messo in rilievo da Campelli) che Fleck dà un’interpretazione dinamica del condizionamento sociale del pensiero, e inoltre trasporta questa tesi integralmente entro la cittadella della scienza, senza le distinzioni tra scienze sociali e scienze fisiche, che invece Mannheim — per esempio — aveva mantenuto.

3’) Fleck ci mostra infine i limiti empirici di un’interpretazione puramente logica, da tavolino — staremmo per dire assiomatica — del convenzionalismo, allorché mette in luce quanto poco gratuite e quanto invece integralmente frutto dell’evoluzione precedente siano le convenzioni concettuali e assertorie che di volta in volta sono seguite da un collettivo.

Siamo quindi del tutto d’accordo con un’ovvia conseguenza delle valutazioni di Campelli, e cioè sul fatto che a Fleck vada riconosciuta una posizione di primissima grandezza nel firmamento della meta-scienza.

Non meravigli il fatto che quest’opera di rivalutazione del ruolo di Fleck alle dimensioni che gli competono resti ancora da completare, perché lo sforzo da compiere è in un certo senso proporzionale all’entità dell’anticipazione del pensiero di Fleck rispetto agli stili di pensiero del suo tempo. Entità che può essere valutata se si pensa che anche i suoi contemporanei, i positivisti logici del Circolo di Vienna, che si limitavano a sostenere l’applicazione di categorie logiche più rigorose di quelle positiviste alla riflessione sulla scienza, facevano fatica ad essere accettati in Europa, dove il punto di vista ufficiale sulla scienza era in qualche misura ancora ispirato al pensiero di Leibniz — come ad esempio ricorda Carnap.

Quando, tra la fine degli anni ’30 e gli anni ’50, il neopositivismo si è imposto come la received view, e ha cominciato a subire i primi attacchi dai suoi contestatori, c’era ormai il salto di una generazione tra Fleck da una parte, e Hanson, Toulmin, Kuhn, Feyerabend dall’altra. Si può anche aggiungere che, senza la robusta spallata che questi pensatori (e in particolare proprio Kuhn) hanno vibrato alla received view paleo- e neo-positivista, probabilmente le intuizioni di Fleck sarebbero rimaste sepolte per sempre, o chi sa per quanto tempo ancora.



 

2. Precisata l’ampiezza del nostro accordo con il saggio di Campelli, vediamo ora in che cosa ce ne differenziamo. Si tratta sostanzialmente di una diversa torsione (twist) che impartiamo alla ricostruzione del rapporto tra Fleck e Kuhn. Tale diversa angolatura è anche consentita, o forse determinata, dal fatto che abbiamo scelto di estendere il confronto tra Fleck e Kuhn a tutta l’opera del secondo, invece che limitarlo, come fa Campelli, alla Struttura — decisione peraltro pienamente motivata, dato il livello di profondità che essa ha permesso di raggiungere all’analisi.

La principale differenza tra la nostra interpretazione del rapporto tra Fleck e Kuhn e l’interpretazione che Campelli dà dello stesso rapporto consiste nel fatto che noi siamo particolarmente sensibili alla differenza di taglio (o, se preferite, di occhio) con il quale i due pensatori vedono sostanzialmente gli stessi fenomeni — fenomeni che quasi nessuno in precedenza aveva concettualizzato, anche solo parzialmente.

Di professione Fleck è un biologo di laboratorio, e sulle esperienze acquisite in quella professione egli riflette. Ma l’occhio con cui le guarda è l’occhio di uno gnoseologo, di un filosofo della conoscenza, attentissimo al rapporto fra fenomeni osservati, concetti e termini.

                    In sé, le parole non possiedono un significato fisso, ed esse arrivano ad avere il loro senso più proprio solo in un
                    determinato contesto, in un determinato settore del pensiero. (…) Concetti come quello di qualità, di peso, di
                    elemento, di composizione hanno subìto un completo mutamento di significato (Genesi, cit., pp. 114-115).

                    Non è in generale possibile impostare proposizioni protocollari che possano riferirsi all’osservazione immediata e
                    dalle quali — per via di inferenze logiche — discendano i risultati dell’indagine.

Formulazioni del genere sono possibili solo nel caso della legittimazione a posteriori di un sapere, ma non durante il lavoro conoscitivo in senso proprio. I risultati non possono essere infatti formulati nel linguaggio delle prime osservazioni più di quanto, all’inverso, queste ultime possano trovare una formulazione nel linguaggio dei risultati (Genesi, cit., p. 162). Diversamente dalla maggioranza dei filosofi, egli non formula le sue riflessioni per via di deduzione e abduzione a tavolino, ma rianalizzando criticamente un ricco patrimonio personale di esperienze di ricerca. E proclama la superiorità di questo atteggiamento: Ogni gnoseologia resta, senza indagini storiche e comparative, un vuoto gioco di parole, una epistemologia imaginabilis.... Almeno i tre quarti, se non tutto il contenuto della scienza è condizionato — e può essere spiegato — dalla storia del pensiero, dalla psicologia e dalla sociologia del pensiero (Genesi, cit., p. 75). La grande sensibiliità sociologica, cui si è già accennato, non fa di lui un sociologo. Infatti egli concettualizza prima lo stile di pensiero e poi il collettivo in quanto portatore di quello stile: Esiste (…) un vincolo stilistico tra tutti i concetti di un’epoca (o almeno tra molti di questi concetti), un vincolo che si fonda sulla loro influenza reciproca. Per questa ragione si può parlare di uno stile di pensiero, stile che determina lo stile d’ogni concetto (Genesi, cit., p. 59).

Ciascuna di queste epoche, nello stile che le è proprio, fa uso di concetti perfettamente chiari, dal momento che la chiarezza si basa sulla riducibilità ad altri concetti conformi a quel particolare stile. Ma, nonostante questa chiarezza, è impossibile un’immediata intesa fra chi appartiene a stili di pensiero diversi. Chi potrebbe, per esempio, tradurre il vecchio termine anatomico ‘grembo’ in termini moderni? (Genesi, cit., p. 94).

La presenza di uno stile di pensiero rende necessaria e inevitabile la costruzione del concetto di ‘collettivo di pensiero’ (Genesi, cit., p. 100).

Diamo il nome di collettivo di pensiero a quello che è per così dire il supporto comunitario dello stile di pensiero. Il concetto di collettivo di pensiero è per così dire un concetto più funzionale che sostanziale (Genesi, cit., p. 181).

 Gli ultimi due brani sono particolarmente cogenti, in quanto costituiscono quello che i giuristi chiamerebbero un’interpretazione autentica. Lo stesso Campelli, che vede un rapporto di co-determinazione tra i concetti di stile e di collettivo, tuttavia ammette che "Una ricostruzione del pensiero di Fleck non può che partire precisamente dalla nozione di Denkstil" e nel suo saggio dedica prima una decina di pagine allo stile, poi uno spazio assai più breve al collettivo.
 

2.1. Invece Kuhn, presentando nel 1979 il lavoro di Fleck, parla soprattutto del collettivo e perviene a considerare il concetto di stile solo attraverso il concetto di collettivo:

La tesi formulata dal libro non è priva di alcuni aspetti problematici di fondo e, per conto mio, questi interrogativi vertono tutti — come pensavo anche alla mia prima lettura del libro — intorno alla nozione di collettivo di pensiero. Ritengo (…) che la nozione stessa di collettivo di pensiero non funzioni altro che come l’ingrandimento di una mente individuale, ingrandimento dovuto al fatto che sono in molti a possederla (o a esserne posseduti). (…) Ciò che il collettivo di pensiero offre ai suoi membri è qualcosa di simile alle categorie kantiane, il prerequisito di ogni pensiero in generale. L’autorità del collettivo di pensiero è quindi quasi più logica che sociale (Kuhn, Prefazione a Fleck, Genesis, cit.; trad. it. in Genesi, cit., pp. 254-255). Mentre Fleck è uno gnoseologo con sensibilità sociologica, Kuhn — al momento di scrivere The Structure of Scientific Revolutions — è uno storiografo della scienza, anch’egli con sensibiliità sociologica: La storia, se fosse considerata come qualcosa di più che un deposito di aneddoti o una cronologia, potrebbe produrre una trasformazione decisiva dell’immagine della scienza dalla quale siamo dominati (The Structure of Scientific Revolutions, University of Chicago Press, 1962; trad. it. La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 19784, p. 19).

A differenza di molti filosofi della scienza, io comincio da storico della scienza, cioè con l’esaminare da vicino i fatti della vita scientifica (Reflections on my Critics, in Imre Lakàtos e Alan Musgrave (eds.), Criticism and the Growth of Knowledge, Cambridge University Press, 1970, pp.231-278; trad. it. Riflessioni sui miei critici, in Critica e crescita della conoscenza, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 313-36, a p. 319).

E’ da storiografo che ha ripercorso la stessa strada di Koyré, scoprendo che le concezioni scientifiche del passato diventavano incomprensibili se esaminate attraverso le lenti del presente: Le mie idee (…) iniziarono a chiarirsi nel 1947, quando mi fu chiesto di (…) preparare una serie di lezioni sulle origini della meccanica del XVII secolo. Dovevo (…) analizzare quello che i predecessori di Galileo e Newton conoscevano sull’argomento e le indagini iniziali mi condussero presto alle trattazioni del moto nella Physica di Aristotele (...) Anche al livello che sembrava puramente descrittivo gli aristotelici avevano conosciuto poco la meccanica: molto di ciò che essi avevano avuto da dire era chiaramente sbagliato.

(…) Nello studio di discipline che non fossero la fisica, Aristotele era stato un osservatore acuto e realistico (…) Come era possibile che queste sue doti gli fossero mancate quando aveva studiato il moto?

Improvvisamente intuii la traccia di uno schema per una lettura alternativa di testi sui quali ero impegnato. Per la prima volta detti la dovuta importanza al fatto che l’argomento di Aristotele era il mutare della qualità in generale, comprendendo sia la caduta di una pietra che il passaggio dalla fanciullezza alla maturità.

Dopo aver compreso ciò (…) molte apparenti assurdità sparirono (The Essential Tension: Selected Studies in Scientific Tradition and Change, University of Chicago Press, 1977; trad. it. La tensione essenziale, Torino, Einaudi, 1985, p. ix).

E’ da storiografo che ha individuato quel complesso di fenomeni ricorrenti che lo hanno indotto a formulare il concetto di paradigma (nel senso di esemplare): Una ricerca storica approfondita di una data scienza specializzata in un dato momento rivela la presenza di una serie di illustrazioni ricorrenti e quasi convenzionali di varie teorie nelle loro applicazioni concettuali, osservazionali e strumentali. Queste applicazioni costituiscono i paradigmi della comunità, presenti nei manuali, nelle lezioni universitarie, e negli esercizi di laboratorio. Con lo studio e la pratica di essi, i membri della corrispondente comunità imparano il loro mestiere (La struttura, cit., p. 65).  Nel suo pensiero è infatti centrale un tema classico per la filosofia della storia, l’alternanza ciclica di fasi distinte in modo netto; il periodo pre-paradigmatico: Dall’antichità preistorica in poi, tutti i campi di studio, uno dopo l’altro, hanno attraversato la linea di separazione che divide ciò che lo storico potrebbe chiamare la preistoria del campo, considerato come scienza, e la sua storia propriamente detta (La struttura, cit., p. 41). La scienza normale: Quando esamineremo la scienza normale (…) finiremo col descrivere quel tipo di ricerca come uno strenuo e tenace tentativo di forzare la natura entro le caselle concettuali fornite dall’educazione professionale (La struttura, cit., p. 23). E i periodi di crisi che precedono una rivoluzione: Le rivoluzioni politiche sono introdotte da una sensazione sempre più forte, spesso avvertita solo da un settore della società, che le istituzioni esistenti hanno cessato di costituire una risposta adeguata ai problemi posti da una situazione che esse stesse hanno in parte contribuito a creare. In una maniera più o meno identica, le rivoluzioni scientifiche sono introdotte da una sensazione crescente, anche questa volta avvertita solo da un settore ristretto della comunità scientifica, che un paradigma esistente ha cessato di funzionare adeguatamente nella esplorazione di un aspetto della natura verso il quale quello stesso paradigma aveva precedentemente spianato la strada. Sia nello sviluppo sociale che in quello scientifico, la sensazione di cattivo funzionamento che può portare a una crisi è un requisito preliminare di ogni rivoluzione (La struttura, cit., p. 119). In questo schema ciclico consiste appunto la struttura delle rivoluzioni scientifiche, espressione che certo non per caso Kuhn ha scelto come titolo del suo fortunato volume.

La scansione in fasi costituisce l’ossatura del volume, come compare dall’indice:

II. La via verso la scienza normale.

III. La natura della scienza normale.

IV. La scienza normale come soluzione di rompicapo.

V. La priorità dei paradigmi.

VI. L’anomalia e l’emergere delle scoperte scientifiche.

VII. La crisi e l’emergere delle teorie scientifiche.

VIII. La risposta alla crisi.

IX. La natura e la necessità delle rivoluzioni scientifiche.

X. Le rivoluzioni come mutamenti nella concezione del mondo.

XI. La invisibilità delle rivoluzioni.

XII. La soluzione delle rivoluzioni.

XIII. Progresso attraverso rivoluzioni.
 

Peraltro, Kuhn aveva pienamente maturato l’idea di una successione ciclica di fasi sin dal suo lavoro di storiografo precedente a La struttura: La storia del pensiero scientifico è costellata di ruderi di schemi concettuali che erano stati un tempo oggetto di fede e che vennero in seguito sostituiti da dottrine incompatibili con essi (…) Questa, a grandi linee, è la struttura logica di una rivoluzione scientifica. Uno schema concettuale, ritenuto vero perché economico, fecondo e soddisfacente dal punto di vista cosmologico, conduce infine a risultati incompatibili con l’osservazione. La credenza in esso deve allora essere abbandonata e deve essere adottata una nuova teoria: dopodiché il processo ricomincia da capo. È uno schema utile, perché l’incompatibilità tra teoria e osservazione è la causa ultima di ogni rivoluzione nel mondo delle scienze (The Copernican Revolution, Cambridge, Harvard University Press, 1957; trad. it. La rivoluzione copernicana, Torino, Einaudi, 1969, pp. 52 e 95). L’idea di un’alternanza ciclica di fasi è quasi del tutto assente dal pensiero di Fleck. In tutta la sua opera, l’unico brano in cui sembra adombrare un’idea del genere è il seguente: Molte teorie (…) hanno due epoche della loro vita: esse attraversano prima un’epoca classica, in cui tutto si accorda in maniera impressionante, poi una seconda epoca, nel corso della quale si presentano solo delle eccezioni (Fleck, Genesi, cit., p. 60). Ma mentre Kuhn, quanto meno in questa fase, e probabilmente per un residuo di hegelismo presente nel bagaglio culturale dei filosofi della storia, tende a reificare i poli dialettici, Fleck sottolinea il fatto che il mutamento è graduale: Ogni epoca ha le sue concezioni dominanti, insieme a residui di quelle passate e rudimenti di quelle future, al pari di tutte le strutture sociali. Uno dei compiti più importanti della gnoseologia comparata dovrebbe essere quello di indagare sul modo in cui concezioni e idee oscure passino da uno stile di pensiero all’altro (Genesi, cit., p. 84). Laddove Kuhn vede incomunicabilità, Fleck vede — come sottolinea Campelli — problemi di comunicazione, non radicali e superabili, fra membri di collettivi diversi.

Quest’ultimo fatto è tanto più notevole in quanto la reificazione dei poli dialettici, l’insistenza su una loro radicale alterità, è tipica dell’olismo, e Fleck per molti altri aspetti manifesta una visione radicalmente olista del processo cognitivo:

Un collettivo ben organizzato è portatore di un sapere che supera molto le capacità di un individuo. (…)

I pensieri circolano da individuo a individuo, talvolta un po’ trasformati, poiché individui diversi possono collegare ad essi associazioni in qualche modo diverse. Strettamente parlando, il destinatario non comprende mai i pensieri esattamente nel modo in cui il mittente intendeva essere capito. Dopo una serie di scambi di questo tipo, praticamente niente è rimasto del contenuto originario. Di chi è il pensiero che continua a circolare? Ovviamente non appartiene a nessun individuo singolo ma al collettivo.

Una sorta di superstizioso timore impedisce di attribuire anche la parte più intima della personalità umana, il pensiero, ad un collettivo. (…)

Credo (…) che l’incongruenza tra un’idea che noi osserviamo retrospettivamente e l’esposizione che ne dà l’autore stesso (…) si spiega semplicemente in base al fatto che è il collettivo di pensiero — e non l’individuo — l’effettivo creatore della nuova idea. È questo appunto quel processo di rimaneggiamento collettivo di un’idea su cui abbiamo più volte messo l’accento (Genesi, cit., pp. 101, 103 e 210).

Dichiarazioni oliste così recise sono assenti in Kuhn anche se — come vedremo più avanti, § 5 — solo negli ultimi anni egli prende le distanze esplicitamente da alcune posizioni oliste che emergevano nelle sue prime opere importanti.
 



 

3. E’ consapevole Kuhn delle differenze di taglio disciplinare che lo distinguono da Fleck?

Si direbbe di no. Chi si trova (come è successo a Kuhn) improvvisamente tra i piedi un precursore dal quale — consapevolmente o meno — ha attinto ispirazioni, e ancor più può essere accusato di averne attinto, dovrebbe esser lieto di poter dichiarare: "Sì, lui ed io abbiamo visto gli stessi fenomeni; ma lui li ha visti con l’occhio di un filosofo della conoscenza, io con l’occhio di uno storiografo." E dovrebbe essere ancora più lieto di essere invitato (come è successo a Kuhn) a scrivere la prefazione dell’opera del precursore per poter serenamente ammettere i punti di contatto, dato che si possono sottolineare anche le differenze nelle prospettive.

Invece, è noto che Merton dovette insistere molto per convincere Kuhn a scrivere la prefazione all’edizione inglese di Entstehung und Entwicklung. Quando alfine lo fece, Kuhn si affidò ad ammissioni parziali e imbarazzate sul proprio rapporto con l’opera di Fleck:

Sono stato certamente rassicurato dall’esistenza del (…) libro [di Fleck] e questo è stato un contributo di non poca importanza, dal momento che nel 1950 — e anche negli anni immediatamente seguenti — non avevo notizia di altri che avessero visto nella storia della scienza quello che vi stavo trovando. È inoltre molto probabile che la conoscenza del testo di Fleck mi abbia aiutato a comprendere che i problemi dei quali allora mi stavo occupando avevano una dimensione fondamentalmente sociologica.

Non sono tuttavia sicuro di avere preso dall’opera di Fleck qualcosa di molto più concreto, anche se naturalmente posso averlo fatto e lo avrò fatto senz’altro (…) I segni ai margini della mia copia del libro di Fleck indicano che il mio interesse andava soprattutto alle cose sulle quali avevo già molto riflettuto per mio conto: alle modificazioni delle Gestalten in cui si presenta la natura e alle conseguenti difficoltà di rendere il ‘fatto’ indipendente dal ‘punto di vista’ (Kuhn, Prefazione a Fleck, Genesis, cit.; trad. it. in Genesi, cit., pp. 252-253).

Abbiamo voluto richiamare il fatto che Kuhn sembra inconsapevole della diversità tra il suo taglio disciplinare e quello di Fleck anche se ci rendiamo perfettamente conto che tale inconsapevolezza non testimonia a favore della nostra tesi circa la presenza di una rilevante differenza in tal senso.
 



 

4. Si può inoltre aggiungere che la differenza di taglio disciplinare, che noi individuiamo fra Fleck e il Kuhn della Rivoluzione Copernicana e della Struttura, va attenuandosi : nella sua produzione successiva, infatti, Kuhn dà un rilievo sempre minore alle chiavi di lettura tipiche di un filosofo della storia, e manifesta un interesse crescente per problemi tipici del filosofo della conoscenza, come il rapporto tra la realtà, il pensiero e il linguaggio — è proprio a questo mutamento di interessi che allude Hempel quando parla di una "svolta tassonomica" di Kuhn.

Già nel Poscritto alla seconda edizione della Struttura egli sottolinea che la differenza essenziale fra un paradigma e un altro non si colloca solo sul piano assertorio (teorie, leggi, ipotesi) ma consiste anche nel modo in cui vengono classificati gli oggetti studiati:

La prassi della scienza normale dipende dalla capacità, acquisita sulla base di esemplari, di raggruppare oggetti e situazioni in insiemi similari che sono primitivi nel senso che il raggruppamento viene fatto senza dare risposta alla domanda: simili rispetto a che cosa? Un aspetto centrale di qualsiasi rivoluzione è, dunque, che qualcuna delle relazioni di similarità cambia. Oggetti che erano stati precedentemente raggruppati nel medesimo insieme vengono successivamente raggruppati in insiemi differenti e viceversa (Postscript 1969, nella 2ª edizione di The Structure of Scientific Revolutions, University of Chicago Press, 1970. Trad. it. Poscritto 1969, nella 4ª edizione de La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi,1978, p. 240). Questo passo è particolarmente interessante perché preannuncia quel ri-orientamento che Kuhn manifesta pienamente e generalizza poco dopo, nei Second Thoughts pubblicati nel ’74 nell’antologia di Suppe. Si considerino infatti questi due passi: Penso che sia meritevole di nota quanto poca attenzione i filosofi della scienza hanno dedicato al legame linguaggio-natura. Certamente la forza epistemica dell’attività dei formalisti dipende dalla possibilità di rendere non problematico tale legame (Second Thoughts on Paradigms, in Frederick Suppe (ed.), The Structure of Scientific Theories, Urbana, University of Illinois Press, 1974, pp. 459-482; trad. it. Nuove riflessioni sui paradigmi, in La tensione essenziale, cit., p. 331, nota).

La mia principale e più insistente critica alla recente tradizione di filosofia della scienza si appunta contro il suo esclusivo focalizzarsi sui problemi sintattici, a scapito dei problemi semantici. Si postula un linguaggio di sense-data, un linguaggio cosale, un vocabolario di base, i cui riferimenti alla natura sono non problematici. Essendosi così procurati, apparentemente, un fondamento semantico stabile, si passa a mettere a fuoco solo quei problemi che riguardano le relazioni fra termini o tra frasi… Contro approcci di questo tipo ho sottolineato altrove che non esiste alcun vocabolario di base tale da poter essere completamente condiviso da una data teoria e dalla sua rivale post-rivoluzionaria (…) Per queste ed altre ragioni, ho sostenuto che i problemi relativi al legame tra espressioni verbali e mondo devono essere messi al centro della filosofia della scienza (Second Thoughts, rejoinder, in Suppe, The Structure of Scientific Theories, cit., p. 504; la discussione non è stata ristampata in Essential Tension, e quindi neppure nella traduzione di Einaudi).

Il secondo brano ci mostra un Kuhn che paradossalmente definiremmo assai più rivoluzionario del Kuhn che tematizza le rivoluzioni. Da Galilei in poi si è proclamato che il compito della scienza è formulare asserti — scoprire leggi, proporre e "verificare" ipotesi e teorie — circa le relazioni fra proprietà/variabili. Un compito che correttamente Kuhn chiama ’sintattico’; e osserva altrettanto correttamente che per poter limitare l’epistemologia ai compiti sintattici sarebbe necessario dare per scontata una piena corrispondenza fra termini, concetti e referenti — cosa che un minimo di sensibilità gnoseologica impedisce di fare.

Qualche anno dopo, Kuhn torna due volte sul ruolo che il modo di classificare gli oggetti cognitivi ha nelle rivoluzioni scientifiche:

La sorta di redistribuzione di casi fra famiglie o tipi naturali con la conseguente modificazione dei caratteri rilevanti per il riferimento è, secondo me, un carattere centrale (forse il carattere centrale) degli episodi che ho etichettato in precedenza come rivoluzioni scientifiche (Metaphor in Science, in A. Ortony (ed.), Metaphor and Thought, Cambridge University Press, 1979; trad. it. La metafora nella scienza, in R. Boyd e T.S. Kuhn, La metafora nella scienza, Milano, Feltrinelli, 1983, p. 109).

Ciò che caratterizza le rivoluzioni è (…) il cambiamento in varie categorie tassonomiche, prerequisito delle descrizioni e delle generalizzazioni scientifiche (What Are Scientific Revolutions?, in L. Krüger, L.J. Daston, M. Heidelberger (eds.), The Probabilistic Revolution, Vol. I, Cambridge, MIT Press, 1987, pp. 7-22, a p. 20).

Confrontiamo questi due brani con il brano del Poscritto riportato poco sopra: in quel brano il cambiamento di alcune classificazioni era "un aspetto centrale di qualsiasi rivoluzione". Dieci anni dopo (Metaphor, 1979), esso diventa "un carattere centrale (forse il carattere centrale)". Ancora pochi anni (What Are Revolutions? fu presentato come Occasional Paper al Center for Cognitive Science del MIT nel 1981), ed esso diventa "ciò che caratterizza le rivoluzioni".

Sempre negli anni ’80, la rivendicazione del ruolo della componente semantica nella scienza, anticipata chiaramente nel ‘69 (brano di Second Thoughts riportato sopra), trova pieno sviluppo:

Se dovessi riscrivere ora The Structure, darei maggior rilievo al tema del cambiamento linguistico (…) Il concetto di rivoluzione scientifica ebbe origine con la scoperta che per comprendere un qualsiasi episodio della scienza del passato lo storiografo deve prima imparare il linguaggio in cui quell’episodio fu scritto. I tentativi di traduzione letterale in un linguaggio successivo sono destinati a fallire;  il processo di apprendimento linguistico è interpretativo ed ermeneutico. Poiché un risultato positivo nell’interpretazione si raggiunge di solito considerando lunghi brani ("inserendosi nel circolo ermeneutico"), la scoperta che lo storiografo fa del passato comporta spesso l’improvviso riconoscimento di nuovi schemi o Gestalten. Ne consegue che lo storiografo — se non altri — fa un’esperienza rivoluzionaria (Commensurability, Comparability, Communicability: Rejoinder, in P.D. Asquith e T. Nickles (eds.), PSA 1982. Proceedings of the 1982 Biennial Meeting of the Philosophy of Science Association, East Lansing, Philosophy of Science Association, 1983, pp. 712-716, a p. 714). Negli ultimi scritti, infine, compare la consapevolezza — in implicita e probabilmente inconsapevole contrapposizione con le tesi di Whorf e con il Linguistic Turn in generale — del ruolo essenziale del pensiero nel modo in cui le categorie linguistiche si adattano alla realtà: Nel corso di tutto il saggio, parlerò di ‘lessico’, di ‘termini’ e di ‘frasi’. Il mio interesse, tuttavia, è in effetti per le categorie concettuali o — più in generale — intensionali (Dubbing and Redubbing: the Vulnerability of Rigid Designation, in C.W. Savage (ed.), Scientific Theories. vol. XIV dei Minnesota Studies in the Philosophy of Science, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1990, pp. 298-318, a p. 315).

Ho descritto quelle concezioni come concernenti termini o tassonomie lessicali, e continuerò a farlo: il genere di conoscenza di cui mi sto occupando trova espressione in forme verbali esplicite o in altri generi di forme simboliche. Ma può servire a chiarire ciò che ho in mente sottolineare che potrei parlare di concetti più propriamente che di termini. Quella che ho chiamato una tassonomia lessicale potrebbe, cioè, essere meglio definita uno schema concettuale, dove il termine ‘schema’ non è inteso come un insieme di credenze, ma come un particolare modo di operare di un modulo mentale, prerequisito all’avere credenze, che contemporaneamente permette e limita l’insieme di credenze che è possibile concepire. Moduli tassonomici di questo genere sono da considerarsi pre-linguistici e posseduti anche da animali non umani (The Road Since Structure, in A. Fine, M. Forbes, L. Wessels (eds.), PSA 1990. Proceedings of the 1990 Biennial Meeting of the Philosophy of Science Association, vol. II, East Lansing, Philosophy of Science Association, 1991, pp. 2-13, a p. 5).

La struttura conteneva molti riferimenti ai cambiamenti nel significato delle parole che accompagnano le rivoluzioni scientifiche, ma parlavo più spesso di cambiamenti di Gestalten visive, cambiamenti nel modo di vedere. Dei due approcci, il cambiamento di significato era il più fondamentale (…) Ma (…) né le tradizionali teorie del significato delle parole, né le più recenti teorie che riducevano il significato al riferimento erano adatte all’articolazione di questi concetti.

Da quando ho pubblicato Lastruttura, la mia preoccupazione filosofica primaria riguarda problemi relativi a che cos’è per una parola l’avere significato e ai modi nei quali le parole con i significati si attagliano al mondo che descrivono (Prefazione, in Paul Hoyningen-Huene, Reconstructing Scientific Revolutions: Thomas Kuhn’s Philosophy of Science, University of Chicago Press, 1993, p. xii).



 
5. Abbiamo così documentato, in maniera che ci appare sufficiente, la tesi di un’evoluzione intellettuale che porta Kuhn lontano dai suoi iniziali interessi — e categorie concettuali — di storiografo e filosofo della storia, verso interessi e categorie concettuali da filosofo della conoscenza, quindi vicino agli interessi a nostro avviso prevalenti in Fleck. Stabilire se questa evoluzione sia frutto di una lenta — lentissima — maturazione del messaggio di Fleck o sia del tutto autonoma è compito da storiografo, per assolvere il quale forse non sarebbero sufficienti neppure i classici strumenti dello storiografo : lettere private, diari, manoscritti, testimonianze dirette.

Limitandoci ai soli testi pubblicati dai due autori, si può soltanto individuare e segnalare una dimensione sulla quale l’evoluzione intellettuale di Kuhn si allontana da Fleck.

Nel § 2.1 si sono riportati vari brani in cui Fleck manifesta una visione olista, attribuendo al collettivo la titolarità esclusiva dello stile di pensiero. Si è aggiunto che anche nel pensiero del Kuhn filosofo della storia sono presenti molti tratti olisti, come l’insistenza sulla natura istantanea e globale del ri-orientamento gestaltico e la conseguente incomunicabiltà fra visioni paradigmatiche diverse. Ma già presentando nel ’79 l’edizione inglese di Entstehung Kuhn avverte che "un collettivo di pensiero è una finzione ipostatizzata (…) l’ingrandimento di una mente individuale". Anni dopo, questo spunto viene sviluppato in un’auto-critica:

Il trasferimento di espressioni come ‘ri-orientamento gestaltico’ dagli individui ai gruppi è chiaramente metaforico (…) Dato che il ri-orientamento gestaltico provato dallo storiografo ne costituisce il modello, l’ampiezza della trasformazione concettuale caratteristica dello sviluppo scientifico ne risulta esagerata. Gli storiografi, che lavorano a ritroso nel tempo, esperiscono regolarmente come un unico slittamento concettuale una trasposizione che in effetti ha richiesto una serie di passaggi. Quel che è peggio, trattare gruppi o comunità come fossero individui un po’ più grandi comporta una rappresentazione distorta del processo di mutamento concettuale. Le comunità non fanno esperienze; tanto meno hanno ri-orientamenti concettuali. Quando il vocabolario concettuale di una comunità cambia, i suoi membri possono subire ri-orientamenti gestaltici, ma solo ad alcuni accade davvero, e non a tutti nello stesso tempo. (…) Parlare, come io ho fatto ripetutamente, di una comunità che attraversa un ri-orientamento gestaltico significa comprimere in un istante un processo di cambiamento esteso nel tempo, non tenendo alcun conto dei micro-processi attraverso i quali tale cambiamento si compie (Possible Worlds in History of Science, rejoinder, in S. Allén (ed.), Possible Worlds in Humanities, Arts and Sciences, Berlino, De Gruyter, 1989, pp. 49-51, a p. 50).

I passaggi dall’individuo al gruppo comportano un grave errore categoriale, nel quale sono più volte incorso nella Struttura, e che è endemico nelle opere di storiografi, sociologi, psicologi sociali e altri. L’errore è trattare i gruppi come individui un po’ più grandi o gli individui come gruppi un po’ più piccoli. Ne risulta, nella sua forma più grossolana, un parlare della mente del gruppo (o dell’interesse del gruppo) e, nella sua forma più sottile, l’attribuzione al gruppo di una caratteristica comune a tutti o quasi i suoi membri (Postfazione, in Paul Horwich (ed.), World Changes, cit., pp. 311-341, a p. 328).

Nella Struttura il ri-orientamento gestaltico è usato ripetutamente come modello per ciò che succede a un gruppo, e quell’uso ora mi sembra sbagliato. I gruppi non fanno esperienze se non in quanto tutti i loro membri ne fanno. E non ci sono esperienze, ri-orientamenti gestaltici o altro, che tutti i membri di una comunità scientifica debbano condividere nel corso di una rivoluzione. Le rivoluzioni non dovrebbero essere descritte in termini di esperienze del gruppo, ma nei termini delle diverse esperienze dei diversi individui componenti il gruppo (Prefazione, in Paul Hoyningen-Huene, Reconstructing, cit., p. xii.)

Come si è rilevato sopra (§ 2.1), il radicale olismo di Fleck non lo aveva indotto a percepire gli stili di pensiero come monadi, prive di comunicazioni e di mediazioni. Kuhn ha invece bisogno di prendere le distanze dall’olismo per correggere quella reificazione dei poli dialettici che è probabilmente — come ha rilevato Toulmin — il principale difetto della sua opera più famosa.


* Sandro Landucci ha redatto i parr. 2, 3 e 5. Alberto Marradi ha redatto i parr. 1 e 4.

Nell’ottobre del 1981, i due curatori della riedizione tedesca di Entstehung und Entwicklung einer wissenchaftlicher Tatsache (Thomas Schäfer e Thomas Schnelle) organizzarono un congresso ad Amburgo per imporre all’attenzione della comunità meta-scientifica la figura di Fleck. In tale occasione Toulmin sostenne con particolare foga la tesi secondo la quale Fleck aveva precorso Kuhn per tutti gli aspetti importanti, senza peraltro incorrere nelle sue reificazioni — ad esempio del concetto di rivoluzione scientifica.

2 Nel suo saggio, Campelli osserva che «la considerazione del libro di Fleck (…) può essere utile a stabilire se una ‘rivoluzione’ di tal genere si sia effettivamente data, o se il punto di vista che la asserisce non costituisca piuttosto una relativa semplificazione , che tende a ignorare la presenza, (…) in ampi settori dello stesso positivismo logico, di tesi largamente incompatibili con l’empirismo realista, in seguito recuperate più che inventate.»

A nostro avviso, per lo meno nell’ambito della filosofia della scienza, si tratta proprio di una rivoluzione. Il destino stesso dell’opera di Fleck — dimenticata per trent’anni e recuperata solo nella prefazione di The Structure of Scientific Revolutions — testimonia proprio di un radicale mutamento nel Denkstil dei filosofi della scienza.

3 Vedi ad es. Entstehung, cit.; trad. it. Genesi e sviluppo di un fatto scientifico, Bologna, Il Mulino, 1983, p. 112 «Non si potrebbe fare a meno di qualcosa di ‘fisso’? Entrambi, il pensiero e i fatti, sono mutevoli, già per il fatto che mutamenti all’interno del pensiero si manifestano nella modifica di fatti e che, viceversa, dei fatti fondamentalmente nuovi sono individuati soltanto da un nuovo modo di pensare.» E, poco oltre, «Non esiste (…) un fondamentale, sulla base del quale si possa costruire logicamente la conoscenza. Anzi, il sapere non si basa su nessun fondamento; la trasmissione delle idee e delle verità si mantiene soltanto grazie ad un continuo movimento e a una continua interazione.»

4 L’abuso del termine ‘teoria’ in questa espressione è già stato criticato da Marradi, Teoria: una tipologia dei significati, in questa rivista, V,13 (1984), pp. 157-181.

5 Oltre ai positivisti Durkheim e Halbwachs, alludiamo a Duhem e soprattutto a Bachelard, con la sua ossessione per la coupure épistémologique. E’ possibile che questa insistenza sulla demarcazione sia un retaggio della «diffidenza di Descartes per la conoscenza pre-scientifica e della sua radicale rottura con essa» (Leo Strauss, What is Political Philosophy?, Glencoe, Free Press, 1959, p. 104).

6 Taddeus Trenn, curatore con Merton dell’edizione americana di Entstehung, afferma: «Fleck sembra essere stato il primo a studiare le fonti della conoscenza scientifica con categorie sociologiche.» (Descriptive Analysis, inFleck, Genesis and Development of a Scientific Fact, Chicago, University Press,1979, p. 154).

7 Infatti egli ammette, tutto sommato, l’immunità delle scienze esatte dal condizionamento sociale del pensiero. Vedi Ideologie und Utopie, Frankfurt, Schulte-Bunke, 1929; trad. it. Ideologia e utopia, Bologna, il Mulino, 19852, pp. 31, 294, 314, 322, 330.

8 Rudolph Carnap, Intellectual Autobiography, in Paul Arthur Schilpp (ed.), The Philosophy of Rudolph Carnap, vol. I, La Salle, Open Court, 1963.

9 E analogamente in un articolo del 1935: «Dov’è l’osservazione pura, priva di pregiudizi, valida per ora e per sempre, indipendente dal contesto, dalla tredizione e dall’epoca?» (O observacji naukowej i postrzeganiu w ogòle, in «Przeglad Filozoficzny» XXXVIII (1935), p. 76).

10 E’ questa la critica principale che gli muove Toulmin. Vedi Does the Distinction Between Normal and Revolutionary Science Hold Water? in Lakatos e Musgrave (eds.), Criticism, cit., pp. 39-47.

11 Vedi p. es. La struttura, cit., p. 182: «Proprio perché è un passaggio tra incommensurabili, il passaggio da un paradigma a uno opposto non può essere realizzato con un passo alla volta, né imposto dalla logica o da un’esperienza neutrale. Come il riorientamento gestaltico, esso deve compiersi tutto in una volta (sebbene non necessariamente in un istante) oppure non si compirà affatto.» Brani analoghi, anche se meno diretti, alle pp. 121, 131, 180-181.

Peraltro nel 1969, rispondendo alle critiche che poi verranno pubblicate nel volume curato da Lakàtos e Musgrave, Kuhn sostiene di non aver mai inteso l’incommensurabilità come radicale incomunicabilità tra sostenitori di paradigmi rivali: «Costituiva una debolezza del mio La struttura delle rivoluzioni scientifiche il fatto che in esso si potesse solo menzionare e non analizzare il fenomeno cui si faceva ripetutamente riferimento come a una ‘comunicazione parziale’. Ma una comunicazione parziale non era mai, come mi ha attribuito Toulmin, una ‘incomprensione reciproca assoluta’. Veniva nominato un problema su cui lavorare, ma non lo si elevava all’imperscrutabilità.» Kuhn prende quindi esplicitamente le distanze dal relativismo radicale: «A differenza di Feyerabend (…) non credo che tale mancanza [di comunicazione] sia sempre totale o irrimediabile.» (Reflections on my Critics, in Lakàtos e Musgrave (eds.), Criticism, cit.; trad. it. Riflessioni sui miei critici, cit., pp. 334 e 314).

Già nel suo intervento al congresso del Methodenstreit, scritto nel 1965, Kuhn precisa che, tematizzando il problema dell’incommensurabilità, egli aveva soprattutto voluto sottolineare, contro la received view, che «le discussioni intorno alla scelta fra teorie diverse non possono essere formulate in una forma che assomigli (…) ad una dimostrazione logica o matematica.» (Logic of Discovery or Psychology of Research?, in Lakàtos e Musgrave (eds.), Criticism, cit.; trad. it. Logica della scoperta o psicologia della ricerca ? in Critica e crescita, cit., p. 239).

12 Si potrebbe peraltro argomentare che nel 1979, al momento in cui scriveva la prefazione a Entstehung, forse Kuhn si stava già allontanando dall’approccio tipico di un filosofo della storia (come cerchiamo di mostrare nel § 4) e che proprio per questo motivo la sua differenza di taglio rispetto a Fleck gli appariva meno nitida di quanto doveva essere al tempo in cui redigeva La struttura.

13 Vedi Carl Gustav Hempel, Thomas Kuhn, Colleague and Friend, in Paul Horwich (ed.), World Changes: Thomas Kuhn and the Nature of Science. Cambridge, MIT Press, 1993, pp. 7-8, a p. 8. Il motivo per cui Hempel usa l’aggettivo ‘tassonomico’ diverrà chiaro leggendo il seguito del nostro articolo e, in particolare, alcuni dei passi di Kuhn che riportiamo.

14 Kuhn, Prefazione a Fleck, Genesis, cit.; trad. it. cit., p. 254.

15 Si osserverà che Kuhn mantiene anche nell’ultima parte della sua opera una visione olista delle strutture concettuali (lessici, tassonomie) che organizzano il modo in cui viene condotta l’attività di ricerca della comunità scientifica. Si tratta però di una forma di olismo situata a un livello ben più specifico dell’olismo sociologico a cui si fa riferimento qui. Vedi Commensurability, Comparability, Communicability, in P.D. Asquith e T. Nickles (eds.), PSA 1982, cit., 669-688; Possible Worlds in History of Science, in S. Allén (ed.), Possible Worlds in Humanities, Arts and Sciences, cit., pp. 9-32; Postfazione, in Paul Horwich (ed.), World Changes, cit.


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